Oltre 63 000 imprese con in totale oltre 300 000 operatori culturali a beneficio di una formazione superiore alla media e, rispetto all’economia globale, in prevalenza di sesso femminile, nonché un valore aggiunto di 15 miliardi di franchi, pari al 2,1% del PIL: questi i principali risultati della nuova statistica dell’economia culturale realizzata dall’Ufficio federale di statistica (UST) facendo seguito a un accordo concluso con l’Ufficio federale della cultura (UFC).
La statistica di sintesi presentata in quest’occasione, basata su rilevazioni dell’UST già in essere, si rifà a definizioni condivise su scala europea. Per la statistica non sono presi in rassegna solo gli ambiti culturali tradizionali, quali il patrimonio culturale o le arti visive, ma anche, per citarne alcuni, l’architettura e la pubblicità. La statistica dell’economia culturale fornisce dati sia sulle imprese attive nel settore della cultura sia sui relativi operatori. Si riferisce agli anni fino al 2019 compreso e illustra gli sviluppi dell’economia culturale a lungo termine, precedenti la crisi del Coronavirus.
Un’impresa su dieci è attiva nel settore della cultura
Nel 2018 il settore della cultura comprendeva 63 639 imprese e 66 122 stabilimenti (filiali o unità produttive). Rispetto a quelle di tutti i settori economici nel complesso (609 000 imprese, 687 000 stabilimenti), la quota di imprese e stabilimenti operanti nel settore della cultura rappresenta rispettivamente il 10,5% e il 9,6%. Il comparto culturale principale, forte di una quota di circa il 30% rispetto alla totalità delle imprese attive in questo ambito, è quello dalle Arti visive, seguito dall’Architettura (21%) e dalle Arti performative con il 16%.
Nel 2018 le imprese nel settore della cultura occupavano 234 494 addetti, corrispondenti a 161 433 equivalenti a tempo pieno (ETP). Rispetto alla quota degli addetti nell’intera economia (5,2 milioni o 4,1 milioni di ETP), quella degli addetti del settore della cultura (4,5%) è nettamente inferiore; le imprese del settore della cultura impiegano mediamente meno addetti rispetto al resto dell’economia. Questo si evince anche dalla loro forma giuridica: ben oltre la metà delle imprese culturali (62,2%) sono ditte individuali.
La cultura rappresenta il 2,1% del PIL
Nel 2018 il valore aggiunto del settore imprenditoriale della cultura (cioè senza contare le amministrazioni pubbliche e le istituzioni private senza scopo di lucro) è stato pari a 15,2 miliardi di franchi a prezzi correnti, corrispondenti al 2,1% del prodotto interno lordo (PIL). La quota principale del valore aggiunto ricavato dalla cultura è da ascrivere ai comparti Libri e stampa, Audiovisivo e multimediale nonché Patrimonio culturale e architettura. A titolo di paragone internazionale si rileva che nel 2017 Eurostat, l’autorità europea in materia di statistica, ha calcolato per gli Stati membri dell’UE27 un valore aggiunto pari al 2,3%.
Negli ultimi anni il valore aggiunto del settore della cultura ha presentato un’evoluzione diversa a seconda dell’ambito. Al netto dell’inflazione, nel 2018 è stato marcatamente inferiore rispetto al 2011, con una media annua in calo dell’1,3%; nello stesso lasso di tempo il PIL è cresciuto del 2,0% all’anno. Il risultato è da ricondurre in particolare all’andamento negativo del comparto Libri e stampa. Più positivo, invece, l’andamento del comparto Architettura nonché di quello denominato Pubblicità, artigianato artistico e formazione culturale.
Oltre 300 000 gli operatori culturali in Svizzera
Nel 2019 in Svizzera si annoveravano 312 000 persone attive quali «operatori culturali» in senso lato, ossia tutte le persone che lavorano nel settore della cultura, a prescindere dal fatto che esercitino una professione culturale o meno, nonché tutte quelle che svolgono una professione culturale che esula dal settore della cultura (v. le indicazioni circa il metodo di seguito). Questa cifra corrisponde al 6,3% delle persone attive in Svizzera. Nel raffronto internazionale, la Svizzera si situa nella parte superiore della tabella, assieme a Paesi come Malta, l’Estonia, il Lussemburgo o la Finlandia. Un terzo (32%) degli operatori culturali è attivo al di fuori del settore della cultura.
Quella degli operatori culturali è una categoria di persone attive con alle spalle una buona formazione: nel 2019 la maggioranza (56%) era in possesso di un titolo di grado terziario, contro il 42% delle persone attive in totale. Inoltre si rileva che l’economia culturale è caratterizzata da una prevalenza di donne. Nel 2019, la quota di donne rispetto alle persone attive del settore culturale, pari al 51%, era superiore a quella delle persone attive nell’economia nel suo complesso (47%). Sempre nel 2019, poi, il 28% degli operatori culturali era indipendente, una percentuale nettamente superiore a quella dell’intera economia (13%).
Forti differenze tra donne e uomini riguardo a posizione professionale e salario
Nel 2019 il 30% degli operatori culturali era membro della direzione dell’impresa in cui lavorava o vi occupava una funzione di superiore, contro il 33% nell’economia nel suo insieme. Si riscontrano le medesime differenze di genere presenti nell’economia intera. Il 36% degli uomini attivi come operatori culturali occupano una posizione dirigenziale o di quadro, contro il 24% delle operatrici. Queste differenze sono particolarmente marcate nei comparti Formazione culturale (differenza di 20 punti percentuali), Architettura (differenza di 19 punti percentuali) e Libri e stampa (differenza di 17 punti percentuali).
Mentre nel 2018 nell’economia complessiva il salario mediano lordo si attestava a 6857 franchi per gli uomini e a 6067 franchi per le donne, nel settore della cultura quello degli uomini era di 7356 franchi, contro i 6088 franchi del salario mediano lordo delle donne. Si tratta di circa il 17,2% in meno, a fronte di uno scarto dell’11,5% rilevato nell’economia nel suo insieme. La differenza salariale tra donne e uomini è marcata in comparti come Libri, stampa e multimedia (–23,1% per le donne) come pure nel comparto Patrimonio culturale e architettura (–17,1%), senza tener conto delle differenze di qualifica, funzione, esperienza ecc. e senza aver rilevato i dati delle imprese con meno di tre addetti né dei lavoratori indipendenti.