Incontro all’Eremo di Campello sul Clitunno (Spoleto) con la Comunità delle Sorelle “Allodole di San Francesco”
Conversazione di Sorella Daniela Maria con Giuseppe Zois
In mezzo secolo di “mestiere del cronista” mi è capitato di tutto. Fatti di cronaca d’ogni colore, una quotidianità che di colpo ha accelerato la corsa moltiplicando i generi narrativi, incontri da tradurre in interviste, parole da chiedere ad altri, cercando insieme di volta in volta, un “qualcosa”. Avendo come sfondo i giorni, cercare di cogliere l’essenza dall’infinita galleria delle esistenze per tramandare approcci, esperienze, proposte, valori, testimonianze. Su centinaia di block notes sono finiti itinerari e viaggi di donne e uomini con il loro vissuto. In genere l’intervista è un cammino simbolico a due, uno che scruta e l’altro che si svela. Dopo due ondate di “covid” e con un orizzonte ancora carico di cifre da emergenza permanente ed estesa, faccio rotta su un’oasi di spiritualità nella pianura di Spoleto. Di solito quando si pensa alla figura dell’eremita, si immagina una donna o un uomo che compie una scelta radicale di vita, che si esprime nell’isolamento, fatto a sua volta di meditazione, silenzio, preghiera, lavoro o studio. In una stagione di “grandi fratelli” è già un evento imbattersi in una figura che decide di lasciarsi alle spalle il mondo. Ma quando in una volta sola ti imbatti in sei “eventi”, siamo all’eccezionalità interpretata da sei donne: quattro già salde nella loro scelta di fare le eremite e due che vogliono esserlo. Sei donne insieme, unite dalla vocazione nella ricerca di se stesse, delle virtù, dell’ascesi, di Dio…
È quanto fanno da 94 anni alcune donne-eremite che al presente si chiamano Daniela Maria, Monica, Lucia, Daniela, con l’aggiunta di due postulanti, attratte a loro volta da questo ideale, tracciato nel 1923 da Sorella Maria (cattolica) e Amy (anglicana), due figure che seppero essere lungimiranti nella lettura dei segni dei tempi, precorrendo le aperture conciliari del Vaticano II. Come è stato trascorso il confinamento del coronavirus nella lunga primavera del 2020, ancora più… eremitica dell’abituale? Quali momenti hanno scandito le 24 ore? Quale lo stato d’animo? E i rapporti con il mondo esterno, che pure hanno un loro iter di scorrimento, come sono stati orientati? Ce lo ha raccontato Daniela Maria, responsabile di questa Comunità di Sorelle che allungano verso il secolo di presenza una prospettiva rivestita con un nome che è un insieme di spiritualità, di natura, di poesia: “Allodole di San Francesco”.
Tutti fragili sulla barca, nell’incertezza del dove
L’irruzione del coronavirus nel nostro tempo e nelle nostre vite, come ci segnerà e condizionerà? È stata una delle domande ricorrenti, per mesi, dal 21 febbraio 2020, quando l’invasore misterioso e invisibile si è annunciato a Codogno, con il primo caso di contagio. Da allora – e abbiamo inaugurato il 2021 – è un ingrossarsi continuo del fiume dell’incertezza. Viviamo un tempo che è stato definito “sospeso”, con divieti, ordinanze, limiti, che alimentano domande senza fine, nella scia che il virus semina dietro sé. Poi dopo i contagi, le sofferenze, i lutti e i costi sanitari, bisognerà ripartire e ricostruire sulle macerie della catastrofe economica che si è abbattuta su tutto il pianeta. Il sociologo Edgar Morin, che con i suoi 99 anni ha attraversato il “secolo breve”, ha condensato in questi punti il lungo percorso di indeterminatezza che si apre davanti a noi: l’origine del virus, le mutazioni che subisce o potrà subire durante la sua propagazione, quando la pandemia si ridurrà oppure se il virus diventerà endemico; le conseguenze psichiche, familiari e coniugali del confinamento; le ricadute politiche, economiche, nazionali e planetarie del dramma. Siamo proprio arrivati al paradosso non nuovo che Leo Longanesi affacciava già a metà Novecento: “La società moderna trova la propria stabilità nell’incertezza. Nulla è più sicuro… Epoca di compromessi, questa, di debolezza, di languori ideologici; le abitudini prevalgono sugli ideali; il benessere non tollera sacrifici”. Una fotografia del tempo fino al 21 febbraio, quando Codogno con il suo primo caso di coronavirus ci ha sbalzati in questo presente in cui vagoliamo. La domanda che più ricorre è a sapere cosa ci lascerà addosso tutto il tempo di confinamento vissuto fin qui, con alcuni limiti che permangono, un’onda lunga di domande e dubbi e la paura di una terza ondata di ritorno, forse una quarta. Tutte le speranze sono puntate sui vaccini, il primo – Pfizer-Biontech – è già stato inaugurato il 27 dicembre 2020 con il “Vaccine day” in tutta Italia e in Europa. Ora si aspetta quello di “Moderna” (dato per efficace al 94,5%).
Rapporti cambiati da porta a porta
Dopo dieci mesi di coronavirus, il nome che ha dominato l’anno appena concluso, abbiamo voluto conoscere qual è stato (e continua ad essere) un approccio molto particolare e speciale: quello con la Comunità delle Sorelle dell’Eremo francescano di Campello, a Spoleto, le “Allodole di San Francesco”. Ce ne parla in questa conversazione la Sorella Daniela Maria Piazzoni, responsabile della comunità.
Vista dall’eremo di Campello, che idea si è fatta Sorella Daniela Maria di questo tempo così imprevisto e segnante del coronavirus? Che cosa ci resterà addosso dei dieci mesi di radicale svolta nei percorsi delle nostre esistenze?
Non credo che l’esperienza vissuta nei mesi del confinamento, con le successive limitazioni nei movimenti e nei comportamenti, produrrà svolte radicali di massa e che tutti diventeranno sobri, misurati, essenziali. Sicuramente tutti hanno avuto modo di riflettere su quello che vale o non vale nella vita. Da molte testimonianze dirette sappiamo dell’impegno generoso e concreto di molti giovani che si sono messi a disposizione degli anziani e delle famiglie che non potevano uscire per fare la spesa o per altre contingenze di quotidianità. Gli esempi di impegno sono stati innumerevoli e ne abbiamo avuto riscontro da diverse persone con le quali siamo in contatto, in diverse città d’Italia, da Roma a Firenze, da Genova a Milano, a Trieste. E queste sono storie di bene. Volenti o nolenti, un cambiamento ci toccherà, quando – usciti dal tunnel – non ci sarà più il lavoro, ci saranno chiusure, fallimenti, disoccupazione e mancheranno i soldi.
“Ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”: sono le parole del Papa nella sua supplica del 27 marzo in Piazza San Pietro. Pescando un’immagine da Isaia, Vèronique Margron ha parlato dei “riparatori di brecce e restauratori di strade” del presente. E ha spiegato che “non significa occuparsi solamente delle nostre comunità, del nostro avvenire – anche se lo si deve fare – ma creare legami che ci uniscano a tutti. Del nostro destino comune, rovinato da tanti drammi e da questa prova collettiva, vera catastrofe”.
In questa tempesta del coronavirus – e uso a mia volta parole del Papa – “il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare”. Non si può avere la presunzione di salvarsi da soli e anche l’Europa non può andare avanti per calcoli nazionali. Ci confrontiamo con emergenze che sono diventate globali: 1) contro una pandemia come il coronavirus si deve remare uniti; 2) le risposte ai flussi di migranti non possono essere i muri e le chiusure dentro i propri confini, lasciando che siano sempre gli altri a farsi carico dell’accoglienza; 3) la lotta al terrorismo internazionale deve creare un fronte comune, condividendo i dati che le varie nazioni acquisiscono. Io spero che ci siano state conversioni di cuori. So per certo che molti in questo tempo hanno ricominciato a pregare, hanno ritrovato il gusto – sì, proprio il gusto – di riprendere in mano il Vangelo, di mettersi davanti ad una prospettiva più grande, che non è misurata soltanto su se stessi.
Una differenza, quindi, ben percepibile tra prima, durante e dopo…
Alcuni potevano avere già avuto qualche familiarità con la spiritualità, ma molti segnali ci rivelano atteggiamenti mutati, ora più positivi e aperti al prossimo. Persone che prima si incontravano all’ascensore di casa e si ignoravano, ora a causa del “covid” hanno cominciato a fare la spesa l’uno per l’altro, a parlarsi dalle finestre, a raccontarsi preoccupazioni e speranze, ad avviare qualche relazione di vicinato. Non credo che tutto questo possa essere dimenticato e riposto. Un minimo di desiderio di rapporti da porta a porta resterà e continuerà, andando oltre la superficialità. Chi veramente stava da solo e non aveva amici fidati si accorgerà della differenza tra prima e dopo.
1 – Continua