Si conclude il secondo ciclo di Letture manzoniane organizzato dall’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera italiana, che si è distinto in modo particolare per la molteplicità degli approcci utilizzati per accostarsi al romanzo manzoniano. A tenere l’ultima lezione il prof. Raffaele De Berti, che ha subito ricordato come il “numero delle trasposizioni cinematografiche dei Promessi Sposi sia altissimo fin dal cinema muto”, alcune delle quali fanno riferimento addirittura al “Fermo e Lucia”. Studiare le pellicole sui “Promessi Sposi” permette dunque di capire e sondare quella che è stata l’evoluzione del cinema popolare lungo gli anni, proprio perché il tentativo di un loro adattamento attraversa tutta la storia del cinema italiano.
Si parte dunque con i “Promessi Sposi” di Eleuterio Ridolfi del 1913, il premo vero esempio di intermedialità, ovvero di come cinema e romanzo interagiscano a vicenda. Nel 1915 Hoepli pubblica infatti una nuova edizione dei “Promessi Sposi” e per la foto di copertina sceglie proprio un fotogramma del film. Il libro rende il film paradossalmente ancora più popolare. Ma l’operazione di Ridolfi, la prima nel suo genere, è apprezzabile per tanti altri aspetti: il chiaro legame con il Gonin, primo illustratore del Manzoni; l’accuratezza con la quale si accosta alle fonti e la capacità di cogliere la dimensione umoristica del romanzo, che conduce lo spettatore ad avere uno sguardo anche benevolo verso il personaggio più controverso, don Abbondio. Non da ultimo, risalta anche un chiaro intendo identitario, che va riconosciuto: il cinema concepisce se stesso come porta d’accesso alle grandi opere letterarie, contribuendo così al senso di coesione nazionale.
Nel 1922 è invece la volta di Mario Bonnard e la sua originale trasposizione. Originale perché il cinema muto in quel periodo è in piena crisi, il grande successo del primo decennio del Novecento sta lentamente scemando, i canoni cinematografici cambiano sotto l’impulso della filmografia americana. Servono dunque azione, colpi di scena, senso dell’avventura. Pur continuando a guardare ai generi vincenti si cerca un adattamento a questi modelli concorrenziali provenienti da oltreoceano e così anche i “Promessi Sposi”, inevitabilmente, mutano volto: pensiamo alla scena con i lanzichenecchi, una scena “di cappa e spada”, in cui interviene un personaggio inventato che assomiglia ad una sorta di Maciste, che sistema gli invasori stranieri. Anche il montaggio, in questo caso, è quello rapido del cinema americano. Ciò non toglie, che ci sia spazio anche per una buona dose di poesia, come le didascalie alle varie scene, che si prestano all’inserimento simbolico di alcuni elementi grafici durante i cambi scena: quando muore fra Cristoforo compare sullo schermo, ad esempio, un’esplicita simbologia sacra.
Ma l’edizione più nota è senz’altro quella di Mario Camerini del 1941, regista di grande professionalità e molto affermato. Egli mira soprattutto ad una visione realistica, ad una narrazione visuale che consenta di dare spazio al paesaggio. Come nota la critica, grande assente è però il popolo. Inoltre, dal punto di vista tecnico manca la voce fuori campo (la cosiddetta voice over), dunque non c’è narratore onnisciente. Ma dal punto di vista cinematografico funziona bene: è l’immagine che resta, in una sorta di distensione visiva. “Certamente siamo di fronte ad un’edizione comunque interessante, di buon livello, che per molto tempo sarà punto di riferimento”, commenta il prof. Berti.
Le trasposizioni cinematografiche terminano nel 1954 con un colossale progetto della LUX FILM, nato a seguito della traduzione inglese dei “Promessi Sposi” di Archibald Colquhoun, che dà la spinta per un progetto internazionale, di cui all’inizio avrebbe addirittura occuparsi Luchino Visconti. L’intento è sicuramente pedagogico, facendo un commento al testo cinematografico, e recuperando la prassi manzoniana dell’interrogarsi sugli accadimenti. La fedeltà al testo del Manzoni è assoluta e le scelte cruciali sono connotate da un forte pathos; pensiamo alle inquadrature degli appestati, dove vediamo gli ammalati con gli occhi di Renzo in un clima di silenzio tombale.
Tutto questo testimonia della grandezza dei “Promessi Sposi”, che possono avere davvero molti livelli di lettura, tanto più che dagli anni Sessanta si aprirà una ricca stagione televisiva che li metterà al centro al pari del cinema. Dalla serie RAI in 8 puntate di Sandro Bolchi nel 1967, a quella di Francesca Archibugi su Canale 5 nel 2004, passando per la serie in 5 puntate di Salvatore Nocita, denotata da grande spettacolarità, alla parodia del Trio Lopez-Marchesini-Solenghi del 1990.
Le letture manzoniane riprenderanno nel semestre autunnale 2019.
Laura Quadri