Focus

Lezioni utili quotidiane da una trincea del virus

Infermiere che tiene la mano di un paziente

In un libro di Gaffuri-Martignoni un percorso su cui riflettere. L’esperienza vissuta all’interno di una residenza per anziani, la Fondazione Parco San Rocco di Morbio Inferiore. Quattordici lettere scritte ai tempi del “coronavirus” per tener su il morale del personale sanitario e degli ospiti, ma non solo. E come corollario, un coro di voci: quelle degli infermieri e quelle figure che nel silenzio e con il cuore si sono prodigati e continuano a farlo in questa seconda ondata.

«Viva la vita» era uno slogan-appello negli show televisivi serali di Maurizio Costanzo su Canale 5. Qualcuno ebbe da ridire, come sempre c’è da obiettare su tutto: ovvio, scontato. Certo: ma era anche un valore dichiarato su cui non sempre si riflette (o lo si fa quando la vita scricchiola). Vita alla Vita: può sembrare anche questo uno slogan sconfinante nei proverbi , intrisi comunque della profonda saggezza popolare. Vita alla Vita è un bel libro: lo hanno scritto John Gaffuri e Graziano Martignoni e le parole sono dense, solide. Sono maturate e vengono dalla trincea che ben conoscono gli autori: Gaffuri per essere il direttore della Fondazione Parco San Rocco di Morbio Inferiore, una moderna residenza per anziani; Martignoni dal canto suo è psichiatra, psicoterapeuta, docente e scrittore, ma prima di tutto è un uomo che sa capire chi è in condizioni di fragilità.

Nei tempi di una pandemia come la “covid” questo libro è la celebrazione del senso umano che deve – dovrebbe – permeare il nostro vivere, è un inno alla fraternità accomunante, un canto alla speranza: e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno sotto un diluvio di cifre, allarmi, notizie inquietanti, previsioni che tolgono il fiato.

Vita alla Vita è una forte testimonianza di resistenza, di grande fiducia, di vicinanza, condivisione, solidarietà in un periodo in cui avanza e fa paura un fantasma al quale si pensa poco nelle stagioni dell’esuberanza: la solitudine. Che in quanti vivono nelle stanze – quali che siano – della terza o quarta età solleva inquietudini, genera apprensioni sconfinanti nell’angoscia. Come il timore di morire senza qualcuno che amorevolmente ti tenga la mano.

Non è un’improvvisazione occasionale sulla solitudine quella di Martignoni: proprio nel Mendrisiotto, precisamente a Vacallo, a fine anni Ottanta e inizio Novanta lo psichiatra vi organizzava convegni su temi centrali dell’esistere. Erano i Seminari di Alice, uno dei quali fu dedicato proprio alla solitudine, con la partecipazione di nomi che poi sarebbero diventati familiari al grande pubblico delle TV, un nome su tutti Paolo Crepet.

Non sono solo autori Gaffuri e Martignoni: il loro proposito è di accompagnare in primis i diretti interessati ai quali si rivolgono, che sono le collaboratrici e i collaboratori della Casa di Morbio e, in parallelo, anche i degenti e i loro congiunti. Più in esteso l’obiettivo è di tenere compagnia, sostenere, incoraggiare un’opinione pubblica disorientata e smarrita per il flusso continuo di notizie spesso ai limiti dell’ossessività.

Con una felice scelta, lo psichiatra scrive 14 lettere e lo fa per smuovere dal rischio di rimanere muti davanti al pericolo e agli agguati sferrati alla cieca dal misterioso e subdolo nemico, battezzato anche lo “Stravirus-corona”, senza volto e senza insegne.

Il percorso è fatto di soste per riflettere e rincuorarsi, come facevano i contadini sotto i loro carichi di legna o di fieno: si fermavano a riposare, a riprender fiato. Nella «grande tempesta» è importante «incontrare, andare incontro»; fare esperienza di «una normalità nuova», rivalutare «il piacere del contatto e della vicinanza» (nei luoghi di cura), divenire «ostetrici di felicità» in un immaginario «Giardino della Cura». Gaffuri e Martignoni, con il coro finale di voci – assistenti e ausiliari di cura, infermieri… – si mettono nei panni di «giardinieri attenti a sorvegliare che le inevitabili malerbe dell’indifferenza, della paura, della disillusione, della fatica non invadano le aiuole e i fiori coltivati con cura».

La lezione illuminante che viene da queste pagine è la rivalutazione su cui lo psichiatra insiste dello stare accanto «al letto del malato», funzione che nessuna pur avanzatissima scoperta tecnologica potrà mai svolgere. Ho chiesto a Martignoni qual è, a suo giudizio, il cambiamento più segnante che ci viene da questo cataclisma che ha messo e tiene in ginocchio il mondo. «Questo virus – mi ha risposto – parla molti dialetti, da quello strettamente biologico a quello sanitario, a quello psicologico e antropologico, a quello sociale ed economico, sino a quello spirituale. Il virus cerca e trova nell’organo e nelle cellule del nostro corpo il modo per abitarle da padrone sino ad ucciderle, cerca e trova i luoghi più fragili e vulnerabili del nostro corpo sociale e culturale su cui esercitare la sua “dittatura”, sovvertendo la quotidianità del tempo e dello spazio, ferendo il nostro bisogno di vicinanza, di contatto e di dialogo, perché, non scordiamolo, noi tutti siamo un dia-logo o come scriveva Hölderlin noi tutti “siamo un colloquio”».

Siamo ancora nel labirinto e si spera nel vaccino capace di debellare la “covid”. Chissà quando arriva. Alcuni lo annunciano già nel prossimo mese, altri più in là, forse in primavera. Sono in molti che in questi mesi hanno svolto ricerche, dalla Cina, culla del virus, all’America, a vedere lo striscione del traguardo: sotto questa immaginaria linea, si accalcano moltitudini impazienti. C’è ancora una coltre di nebbia da dissipare, con diversi aspetti da chiarire.
Ciò che invece si è acquisito è innanzi tutto la certezza che la tecnica deve essere sempre guidata dalla mano e ancor più dal cuore dell’uomo, che è ragione e sentimento: lo si è sperimentato con medici, personale sanitario a tutti i livelli, infermieri, una moltitudine di figure che si sono moltiplicati in modi ammirevoli nelle corsie, nei reparti di cure intense, accanto a malati per i quali hanno sostituito i genitori, i fratelli, le sorelle, mogli e mariti. Hanno curato e hanno ascoltato, hanno raccolto le ultime parole, gli ultimi affetti da trasmettere alle famiglie, avendo a loro volta il cuore devastato di fronte a una vita che si spegneva.
Il coronavirus ha consentito un ritorno all’essenzialità: «Ci siamo sentiti fragili e impotenti di fronte a Madre Natura» – scrive il direttore John Gaffuri – «un segnale che abbiamo il dovere di accettare e interiorizzare nutrendo mitezza, rispetto e gratitudine per la viva». È la filigrana del «tutti fratelli»: sarà anche utopia, come dicono alcuni, ma è il messaggio che la scia della “covid” ci traccia.

Giuseppe Zois

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