Nel suo ultimo libro Una nazione bagnata di sangue (Einaudi 2024), Paul Auster consegna ai lettori quello che appare come un testamento morale e civile. Un’opera che intreccia la storia personale con una profonda riflessione sulla violenza armata che pervade la società americana. Il libro, arricchito dalle fotografie in bianco e nero di Spencer Ostrander, si configura come un documento storico e una denuncia sociale di straordinaria attualità. L’incipit è diretto e personale. «Non ho mai posseduto un’arma da fuoco», dichiara Paul Auster, spiegando come «la mia indifferenza verso le armi derivi dal fatto che nel mio ambiente d’origine non c’è mai stato nulla che abbia contribuito a rendermele interessanti. Né mio padre né mia madre né nessun altro nostro parente possedevano un’arma da fuoco». Tuttavia, «fossi venuto da un ambiente diverso, è molto probabile che avrei tranquillamente accettato le armi come parte integrante della mia vita».
La dimensione personale della narrazione si approfondisce attraverso il racconto di una tragedia familiare. Sua nonna uccise il marito con due colpi di pistola. Questo evento traumatico emerge dai ricordi d’infanzia dell’autore. «Avevo due nonne ma un nonno soltanto», racconta, ricordando come da bambino chiese tre volte al padre come fosse morto il nonno, ricevendo ogni volta una versione diversa della storia. La nonna fu poi assolta per infermità mentale. Le fotografie di Ostrander costituiscono una componente essenziale del libro. Il fotografo ha attraversato più volte il paese per documentare i luoghi di oltre trenta sparatorie di massa recenti. Gli scatti, tutti in bianco e nero e privi di presenza umana, catturano «luoghi quotidiani, comuni, talvolta brutti e banali, ma non per questo meritevoli dell’orrore a cui hanno assistito». Sono “fotografie del silenzio”. E testimoniano come la tragedia possa colpire ovunque. In qualsiasi momento.
Paul Auster traccia un quadro spietato della situazione americana. «Gli americani rischiano di restare vittime di un’arma da fuoco venticinque volte in più dei loro omologhi che vivono in altri Paesi ricchi e cosiddetti avanzati». E aggiunge con amarezza: «L’intelligenza o i mezzi per ridurre questa minaccia alla sicurezza e al benessere della società non ci mancano ma, per ragioni storiche complesse, ci è mancata la volontà di farlo». La frequenza delle sparatorie di massa è allarmante. Esse «sono la causa solo di una piccola percentuale dei decessi per arma da fuoco in America, ciononostante si verificano con una frequenza sbalorditiva, grosso modo una al giorno nel corso di un anno qualsiasi». Auster nota come «solo un piccolo numero di sparatorie di massa trovano spazio sulla stampa nazionale. Gli americani sono così abituati alle carneficine quotidiane che ormai non ci fanno neanche più caso».
L’autore dedica particolare attenzione all’analisi dei perpetratori delle stragi. «Il punto è trasformarsi in una macchina assassina. A tale scopo scelgono le loro armi con cura, spesso dotandosi di un assortimento di fucili». Le motivazioni sono varie. «Rancori famigliari, rancori coniugali, rancori sessuali, rancori lavorativi, rancori istituzionali, rancori politici, rancori razziali ed etnici». Paul Auster nota come «molti degli assassini più giovani ambiscono a superare il totale delle vittime raggiunto dai loro predecessori, a battere il record e conquistare così la fama e l’imperitura gloria criminale del più grande assassino di massa della storia americana». E poi, «la parola che ricorre in tutte queste storie è solitudine, un’insopportabile, ottenebrante solitudine, la stessa che spinge milioni di altri americani a cercare conforto in varie forme di annientamento: abuso di sostanze, abuso di alcolici e fughe dissociative ossessive nei labirintici meandri di Internet».
Auster riflette anche sul ruolo dei media nella normalizzazione della violenza armata. Negli anni della sua gioventù, racconta, «la televisione trasmetteva venti o trenta western a settimana e gli studios di Hollywood sfornavano decine di pellicole in technicolor sul Selvaggio West. Se si aggiungono i tanti film e telefilm sui gangster che venivano prodotti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, milioni di grandi e piccoli schermi da un capo all’altro dell’America erano subissati da immagini di sparatorie». L’autore sottolinea come dopo ogni tragedia «per un istante tutti sembrano affratellati in questo Paese solitario, fratturato». Ma «tempo due battiti di ciglia e gli schieramenti favorevoli e contrari alle armi da fuoco» si ricreano immediatamente. È un ciclo che sembra impossibile da spezzare, dove «mettete un’arma in mano a un folle e può succedere di tutto».
Amedeo Gasparini
Nel suo ultimo libro Una nazione bagnata di sangue (Einaudi 2024), Paul Auster consegna ai lettori quello che appare come un testamento morale e civile. Un’opera che intreccia la storia personale con una profonda riflessione sulla violenza armata che pervade la società americana. Il libro, arricchito dalle fotografie in bianco e nero di Spencer Ostrander, si configura come un documento storico e una denuncia sociale di straordinaria attualità. L’incipit è diretto e personale. «Non ho mai posseduto un’arma da fuoco», dichiara Paul Auster, spiegando come «la mia indifferenza verso le armi derivi dal fatto che nel mio ambiente d’origine non c’è mai stato nulla che abbia contribuito a rendermele interessanti. Né mio padre né mia madre né nessun altro nostro parente possedevano un’arma da fuoco». Tuttavia, «fossi venuto da un ambiente diverso, è molto probabile che avrei tranquillamente accettato le armi come parte integrante della mia vita».
La dimensione personale della narrazione si approfondisce attraverso il racconto di una tragedia familiare. Sua nonna uccise il marito con due colpi di pistola. Questo evento traumatico emerge dai ricordi d’infanzia dell’autore. «Avevo due nonne ma un nonno soltanto», racconta, ricordando come da bambino chiese tre volte al padre come fosse morto il nonno, ricevendo ogni volta una versione diversa della storia. La nonna fu poi assolta per infermità mentale. Le fotografie di Ostrander costituiscono una componente essenziale del libro. Il fotografo ha attraversato più volte il paese per documentare i luoghi di oltre trenta sparatorie di massa recenti. Gli scatti, tutti in bianco e nero e privi di presenza umana, catturano «luoghi quotidiani, comuni, talvolta brutti e banali, ma non per questo meritevoli dell’orrore a cui hanno assistito». Sono “fotografie del silenzio”. E testimoniano come la tragedia possa colpire ovunque. In qualsiasi momento.
Paul Auster traccia un quadro spietato della situazione americana. «Gli americani rischiano di restare vittime di un’arma da fuoco venticinque volte in più dei loro omologhi che vivono in altri Paesi ricchi e cosiddetti avanzati». E aggiunge con amarezza: «L’intelligenza o i mezzi per ridurre questa minaccia alla sicurezza e al benessere della società non ci mancano ma, per ragioni storiche complesse, ci è mancata la volontà di farlo». La frequenza delle sparatorie di massa è allarmante. Esse «sono la causa solo di una piccola percentuale dei decessi per arma da fuoco in America, ciononostante si verificano con una frequenza sbalorditiva, grosso modo una al giorno nel corso di un anno qualsiasi». Auster nota come «solo un piccolo numero di sparatorie di massa trovano spazio sulla stampa nazionale. Gli americani sono così abituati alle carneficine quotidiane che ormai non ci fanno neanche più caso».
L’autore dedica particolare attenzione all’analisi dei perpetratori delle stragi. «Il punto è trasformarsi in una macchina assassina. A tale scopo scelgono le loro armi con cura, spesso dotandosi di un assortimento di fucili». Le motivazioni sono varie. «Rancori famigliari, rancori coniugali, rancori sessuali, rancori lavorativi, rancori istituzionali, rancori politici, rancori razziali ed etnici». Paul Auster nota come «molti degli assassini più giovani ambiscono a superare il totale delle vittime raggiunto dai loro predecessori, a battere il record e conquistare così la fama e l’imperitura gloria criminale del più grande assassino di massa della storia americana». E poi, «la parola che ricorre in tutte queste storie è solitudine, un’insopportabile, ottenebrante solitudine, la stessa che spinge milioni di altri americani a cercare conforto in varie forme di annientamento: abuso di sostanze, abuso di alcolici e fughe dissociative ossessive nei labirintici meandri di Internet».
Auster riflette anche sul ruolo dei media nella normalizzazione della violenza armata. Negli anni della sua gioventù, racconta, «la televisione trasmetteva venti o trenta western a settimana e gli studios di Hollywood sfornavano decine di pellicole in technicolor sul Selvaggio West. Se si aggiungono i tanti film e telefilm sui gangster che venivano prodotti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, milioni di grandi e piccoli schermi da un capo all’altro dell’America erano subissati da immagini di sparatorie». L’autore sottolinea come dopo ogni tragedia «per un istante tutti sembrano affratellati in questo Paese solitario, fratturato». Ma «tempo due battiti di ciglia e gli schieramenti favorevoli e contrari alle armi da fuoco» si ricreano immediatamente. È un ciclo che sembra impossibile da spezzare, dove «mettete un’arma in mano a un folle e può succedere di tutto».
Amedeo Gasparini