Pubblichiamo un estratto dal primo capitolo dell’ultimo saggio del linguista Ottavio Lurati, Tra la gente, dedicato alle etimologie di parole e di cognomi con aggiornamenti legati all’attualità.
1. Tra giovani
I giovani sono molto cari: sono il futuro del Paese. Sì che le attenzioni e gli sforzi (compresa la scuola di tradizione fransciniana) sono molti. Peccato che in parecchi di loro si colga un forte attenuarsi della memoria: mass-media, tablet, telefonini, giuochi elettronici ci imprigionano nel presente. Ma individui e comunità crescono attraverso la consapevolezza del passato.
Sul TILO treni e sui bus, negli spiazzi davanti alle scuole senti (ormai da 25 anni) ragazze, apprendiste, studentesse ricorrere a battute gergali (chiamiamole così, per intanto). Una novità grossa: per secoli i “gerghi” sono appannaggio esclusivo dei maschi (artigiani, magnani, spazzacamini, girovaghi).
Numerose le parole e i motti che adulti e adulte fanno volentieri proprie. Mi ha preso uno di quegli abbiocchi… (una sonnolenza da non resistere), si è fiondata sull’autostrada (si è buttata a velocità folle sull’autostrada). Circolano battute come oggi non ho più banane (oggi sono sfinito, senza forze), taci tu che sei una mestola (taci tu, che non capisci nulla), giamàiro (contrazione di ‘già mi hai rotto, mi hai annoiato a morte’), pasturare (uscire per piazze e davanti ai bar in cerca di ragazze interessanti; pasturare: un ricordo dal mondo dei pescatori). Vari motti oggi non sono più limitati a una singola zona (come avveniva in passato), bensì corrono in gran parte dell’Italia. Fino a vent’anni fa, qualche parola di “gergo”, le ragazze la imparavano in spiaggia, al mare (per esempio a Recco, in Liguria) e poi la portavano a casa. Ora tutto va in fretta, corre su telefonini, internet e tablet.
– lo slang viaggia online: noti a tutti ormai commenti quali è off line, il tizio che abbiamo davanti non capisce quello che gli stiamo dicendo, non è “connesso” al PC. Molte battute si diffondono non per contatto personale, bensì attraverso telefonini e trasmissioni radio rivolte a quei giovani che assediano di sollecitazioni pubblicitarie. E gaggio? Lo usano nelle occasioni più diverse. Affiora nelle scuole italiane attorno al 1980; tra romani di Roma è un gaggio è squalifica che corre già negli Anni venti del Novecento. Con il 1985 alligna tra svizzeri italiani. È l’it. regionale gaggia, pidocchio, a sua volta tratto da gazza, gaggia, l’uccello dal becco aguzzo che quando ti colpisce ti fa male sul serio.
Siamo dinnanzi a un gergalismo tratto dal contadino: in passato e non solo in Italia, il contadino era rappresentato come pieno di pidocchi, definiti gaggie per le loro punture. Vedi bolognese gergale gagio, il contadino, la vittima della truffa (1940, 1958), gergo veronese gagiol, contadino (Solinas). Ancora: i gasgiàtt, i ragazzi, letteralmente ‘i pidocchiosi’ nel tarom degli spazzacamini di Vogorno (inchiesta dell’agosto 1982); per i gerganti di Varzi sempre in moto sulla strada del Sempione e diretti in Francia, il gasgiàtt (udito ancora nel 1972) era il miserabile, il barbone, il cencioso, il buono a nulla. Da ‘ingenuo, sprovveduto’ si passava in fretta a ‘stupido, ingenuo, impacciato’. Di qui le attuali e frequenti battute giovanili del tipo: sei un povero gaggio.
Per nulla rari i commenti: quei quattro sono fuori come un balcone, ‘sono drogati a balla’ (Lugano 2007, 2009, 2012), ha un bel violoncello, la ragazza ha un bel sedere (Milano 2008, Mendrisio 2012), schizzarsi con il dentifricio, andare a ballare fino all’alba (Como 2001, Stabio 2007, Mendrisio 2012). Non sappiamo spiegarlo, ma ecco madée che parecchi giovani sottocenerini (2005, 2009, 2016) percepiscono come “tipico” dei locarnesi. Dopodomani spariranno, tanto sono forti moda, bisogno di ricambio e volontà di far colpo sui compagni con battute nuove, inattese. Sostiamo dunque solo su ravanare, farsi uno spinello, fare il bullo.
Ravanare è ormai un “tecnicismo” dei giovani alpinisti del CAI lombardo e del CAS Ticino. “Riciclano” quel ravanare che tanto aveva intrigato Gadda. Ma, certo, non si tratta di un gaddismo. Con tono scherzoso i nostri giovani alpinisti e alpiniste confessano di aver ravanato per mezza giornata: sono stati in giro a lungo in montagna senza raccapezzarsi, senza sapere esattamente dove fossero’; insomma, ma solo in certi casi, ravanare indica anche il ‘girare a vuoto, perdere il sentiero’. Il significato che vigeva secoli fa si ritrova in varie di quelle parlate alpine che sono molto conservative. Aggiungi che vi è il tecnico che ti ha appena montato il computer, lo prova e constata soddisfatto che lavora, che al ravana (Sorengo 2014). E vi sono anche usi più concreti. Il 20 settembre 2017 un amico mi scrive: “Avevo dei dubbi che ho chiarito con mio figlio S. che, seppur trentenne, frequenta ancora l’eloquio giovanile.
Nel Luganese, tra giovani ravanare è usato soprattutto come “toccarsi le parti intime per rinfrescarle o grattarle (ravanarsi il pacco) o palpeggiare spudoratamente una femmina (pastrugnare)”.
E quel fare il bullo che imperversa in molte nostre scuole? Significativo che certe belle raccolte di neologismo degli anni 1990, bullismo non lo registrino. Il fenomeno è venuto su dopo. Escludiamo quel latino medievale bullare, che taluni vorrebbero fosse stato usato nell’accezione di ‘marchiare un delinquente a fuoco sulla fronte o sulle guance ecc.’ Il giovinastro sarebbe stato in origine ‘il bollato, il marchiato a fuoco’. Ma l’ipotesi va abbandonata. La marcatura a fuoco non usava per gradassi e violenti. È invece il normale sviluppo fonetico del germanico bald ‘rapido, impavido, pronto nell’azione’ che – nell’Italia settentrionale – passava a bauld e poi (con dittongo ridotto a o) bol-, bul-, da cui appunto fare il bullo, essere un bullo. Ma poco importano gli etimi quanto preoccupano i soprusi che avvengono sui piazzali di varie scuole italiane e ormai anche nelle nostre. Almeno dal 2007 si denuncia il cyberbullismo e il 18 maggio 2017 il Parlamento italiano discute l’introduzione di una legge sul cyberbullismo.
– che fine fanno i giovanilismi?
Molte “parole giovani” esauriscono la loro parabola in se stesse: escono presto dal circuito dell’uso. Altre volte adulti e adulte assumono certe parole suggerite dai giovani: rendono più disinvolto il parlare. Dal 1980 circa è ad esempio corrente quello è un pivello per dire ‘è un ragazzo imberbe e che pure si dà arie (lat. pop. pipa, arnese per fumare; poi phallus; in Italia settentrionale la -p- diventa –v-: nevut, nipote, savé, sapere ecc.). Diciamo fa il filo a una ragazza: è un tecnicismo che è stato diffuso da certi gruppi giovanili: fare il filo si diceva, in origine, solo dei poliziotti che filano una persona sospetta, la pedinano. Dal mondo dei poliziotti filarne uno, fare il filo a uno non passerà direttamente alla lingua; il passaggio si realizza attraverso la spigliatezza dei giovani che confidavano agli amici di fare il filo a una certa ragazza per ‘non mollarla mai’, ‘starle dietro di continuo’. Mediazioni analoghe sono è una racchia, è una ragazza secca, non ancora formata, poi: brutta; è una goduria, è un gran piacere; datti una mossa, svegliati, datti da fare, sono cazzi acidi, sono guai grossi… Anche essere in stato di grazia ha forse percorso un iter analogo: linguaggio religioso > discorso dei cronisti sportivi > linguaggi giovanili > uso oggi fatto proprio da parecchi adulti. Ma sostiamo su cose più preoccupanti.
– farsi uno spinello
Sempre più giovani rincorrono l’esperienza della droga. Tra le ultime di cui ho preso nota (ott. 2015) sta la droga del cannibale: ti riduce in un’animalità totale, mentre ti avvoltoli sul pavimento e sei preda di convulsioni frenetiche, senza più alcun controllo sulle gambe e le braccia.
Ma da dove viene quello spinello che la fa da padrone da anni? Lo si rintraccia dapprima nell’Italia meridionale. Ciò nei primi anni Venti del Novecento. Spinello non è voce contadina come ipotizzano taluni amici colleghi. La parola circola dapprima nelle carceri dell’Italia meridionale e nel parlare allusivo che vi alligna.
Si continua a ripetere che viene dalla “spina della botte”. Ma non è che una “pseudosoluzione”. Per spina della botte da un lato e spinello dall’altro gli usi linguistici e dialettali sono del tutto diversi.
Spinello, dicevamo, circola tra carcerati dell’Italia del sud attorno al 1920. Il significato non è ancora preoccupante: è la ‘sigaretta che ci si arrotola con le cartine’. Poi passerà tra studenti e liceali di Napoli, Roma, Firenze che a ricreazione ogni tanto si concedono uno spinello per poter fumarsi del ‘tabacco forte’. Siamo negli anni Quaranta e Cinquanta. Nel maggio 2007 un gruppo di amici di Firenze mi spiega che nel 1960-63, lo spinello, nei cortili dell’università (architettura e lettere), lo si riempie di quel tabacco da pipa che si chiama Amsterdamer. Procura una sensazione più “energica” delle Gauloises.
Molte mamme affannate, professoresse e amici spiegano (2014, 2017), a Roma come a Napoli, a Torino come a Trento, che lo spinello si chiama così perché è una sorta di piccola spina: richiamerebbe l’arnese che il bottaio fissava sulla pancia della botte e serviva a spillare il vino. Ma nulla di tutto ciò nelle parlate dialettali e nei “gerghi” italiani. D’altronde questa presunta “spina” (della botte o delle giare di terracotta) comporta una rigidità che manca alle flosce sigarette con cannabis che arrotolano molti giovani.
A nostro parere serve andare in una direzione diversa e cioè verso la pipa che fumavano certi detenuti; il pipare era il fumare. Da pipa si passò a pipello e a farsi uno spipello. Su questo elemento collegato a pipa ‘sigaretta’ si costruiva poi, allusivamente, farsi uno spinello.
Ferrero attesta la diffusione del gergale “pipa, pipa tradizionale senza filtro usata per fumare hashish; fumata di stupefacenti da parte di più persone, nei gerghi giovanili degli anni ’70-’80. Ancora: fare una pipa, fare hashish in gruppo (Napoli 2003), confermato da diversi gruppi di giovani, quello è impipato, quello si droga spesso (Trastevere, maggio 1998, Siena ott. 2016).
I riscontri con pipa sono chiari. Per i detenuti la pipa era la sigaretta che il singolo carcerato si fabbricava in proprio, con del tabacco di seconda qualità o addirittura con i mozziconi raccattati qua e là. E pipare era corrente per ‘fumare la sigaretta’. Ciò compresa la Svizzera italiana: l’è sempre dré a pipà, protesta la moglie del marito che fuma tutto il giorno.
Impressiona che in Italia per “spinello” e “droga” corrano oggi (2017) oltre 150 parole. Ti si fanno incontro parole strane, su cui regna grande incertezza sia tra linguisti sia tra ragazze e giovani che le usano. Talora gli accenni si sfrangiano: da un’allusività iniziale si passa con facilità a “significati” assai diversi da quelli iniziali. Ma, quel che impressiona è la frequenza d’uso di tutta una quantità di allusioni alla droga. Non abbiamo spazio per citare degli esempi. Vedi appena scunchiare e stubazzare. Se skunkiare è ‘prepararsi uno spinello’, ancor più corrente è stubazzare, ossia il fumarselo insieme con gli amici: molti i richiami alla droga consumata in gruppo: guai a essere fuori del gruppo! Anche ai primi spinelli ci si accosta sovente attraverso il gruppo o la banda. In questi mesi poi (marzo-maggio 2017) si incrociano sulla stampa svizzera articoli, discussioni e lettere dei lettori sulla canapa light (vedi La Regione del 22 aprile 2017).
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