Mostra

L’omaggio di Areapangeart a Enrico Della Torre

Veduta della mostra “Le geometrie non euclidee di Enrico Della Torre” all’Areapangeart di Camorino.

È un doveroso omaggio, quello promosso da Loredana Müller e Areapangeart, lo scorso 21 novembre per Enrico Della Torre, giorno di apertura della mostra che gli è dedicata e che sarà visitabile fino al 20 marzo 2023. Sia per l’importanza in sé dell’artista, scomparso la scorsa estate a Teglio in Valtellina, sia per i suoi non episodici contatti col Canton Ticino, dove ha esposto più volte le sue opere e lasciato un importante fondo alla Villa dei Cedri. A ricordare il noto pittore, oltre alle opere esposte di Loredana Müller, anche quelle – ispirate alle “geometrie” di Della Torre – di Beatrice Lancini Balbi, Paolo Blendinger, Paola Fonticoli, Laura Fumagalli, Gualtieri Mascanzoni, Giulia Napoleone, Catherine Rovelli, Petra Weiss, introdotte, durante la serata del 21, da Gilberto Isella, di cui riportiamo l’intervento e che parte rievocando i contatti frequenti di Della Torre con il Ticino. 

Enrico aveva coltivato con gli anni amicizie e collaborato con ticinesi, in particolare nel campo della poesia. Al nostro omaggio corale partecipano artisti  – vedremo dopo – che idealmente, spesso sottotraccia, fanno riferimento alle concezioni estetiche di Della Torre. Concezioni, queste, mai  di ordine teoretico, ma germoglianti al contrario da una prassi costante, prolungata nel tempo, dove tanta memoria storico-artistica s’inietta. Suggerite, occorre sottolinearlo, da un rapporto positivo e vitalistico con il mondo, soprattutto il mondo naturale. Di tale rapporto possiamo riconoscere nelle opere gli istanti fondativi, il conatus dell’artista – come direbbe Spinoza – magari per segni indiziali, vagamente criptici. È sufficiente un cerchietto nero talvolta duplicato, per captare la presenza di un occhio umano rabdomantico in funzione di soggetto. Come una sorta di buco nero che dal profondo attiri in superficie un tempo inabissato. Forse il ricordo del misterioso scenario dei primordi. Ne troviamo un esempio in questa sala nell’opera Sguardo, dal titolo inequivocabile, con due inquiete figure a specchio che sembrano alludere alle sorgenti del guardare. Figurazioni del genere sono vettori tematici, ouvertures, le chiavi di un processo visuale in continua evoluzione.

Il mondo reale è accolto con benevolenza da Enrico. I cui lavori sono sostanzialmente privi di dissonanze tonali accentuate, segnalanti rotture o intenti decostruttivi, anche quando, ma raramente, la gittata segnica si fa nervosa o tentata dall’hasard informale, dalle nebulae. Occorre inoltre sottolineare che da parte del soggetto il movente prioritario è l’affectus (afficere, impressionare), ossia il gesto affettivo venuto dai precordi di chi è intenzionato a darsi cura delle cose, a salvaguardarne l’anima. Avremo poi l’incanto, l’estasi laica dell’immagine. Un clima festoso seppur venato qua e là di malinconia, la felice avventura di un andare incontro al mondo a viso aperto, sapendo che se lo si assume al di là di ogni concettualizzazione e nella sua massima apertura e disponibilità, esso è suscettibile di porre in luce coordinate sorprendenti, sconosciute allo sguardo quotidiano. Come la mappatura di un universo in apparenza nascosto eppure pronto a conquistare lo sguardo, a farsi evidenza.

Di qui l’intervento certosino della mano, del tratto. Paesaggi modulari, attraversati da segmenti paralleli, incrociati o a scale, dove talvolta si rannicchiano entità umanoidi o animalesche fortemente stilizzate. Un serbatoio di risorse cromatiche e formali, un mondo-rifugio a valenza esorcistica, magari quello simboleggiato dalla Talpa che vediamo qui, sorpresa in un reticolo di rette e di curve alternate, vibratile creatura che scava nella mente per rivelare qualcosa di essenziale. Entità fisiche e soprattutto metafisiche, perché il cosmo dellatorriano tende a farsi spazio interiore o pura idea. Leggiamo nei suoi Taccuini: «Arrivare a uno spazio mentale, ma saldamente appoggiato alle misure e alle atmosfere della natura».

Accantonato l’approccio mimetico nei confronti dell’esistente, in linea con le rivoluzioni estetiche novecentesche – si considerino le lezioni di Klee e di Licini in particolare – a quel punto dispositivi inediti inerenti alla stessa realtà verranno allo scoperto. Fino a generare zone di enigmi e di mistero. Il critico Wolfgang Hildesheimer, uno dei maggiori studiosi di Della Torre, parla al riguardo di “enigma figurativo”. Quell’enigma che inonderà di toni fantastico-fiabeschi, indiscutibilmente onirici, l’assetto figurale della tela, dell’incisione o del disegno. Ma tutto questo sempre nel rispetto di un ordine. L’ordine geometrico, in primo luogo, secondo propositi e strategie che potrebbero ricondurci fino a Paolo Uccello, dunque al Rinascimento più sperimentale. Geometrie creative e disinvolte, certo, ma pur sempre geometrie. Alla base quadrati, triangoli, cerchi o spirali colti in se stessi, oppure attraverso le lineature o gli arabeschi del loro intersecarsi o sovrapporsi, del loro formare grate o simboliche finestrine per orientare lo sguardo. Reticoli, allineamenti bizzarri, fragili membrane a separare o far convergere le entità in scena, a escogitare trame fantomatiche. Figure che spesso non cambiano la loro identità di base quando subiscono deformazioni, come avviene nei corpi topologici. Immagini esaltate dalla luce e dal colore: netto, intenso, imperiale, le cui eventuali ombre s’ispessiscono in placche nere, esse stesse cromìe. Scrive il critico Francesco Tedeschi, al proposito: «La geometria sembra direttamente innervare la sostanza del colore».

Nel definire un tipico bipolarismo dell’arte contemporanea, il critico Gregorio Botta indica per Pollock «energia dirompente e rabbiosa», mentre Rothko incarna «metodo, ripetizione e contemplazione». Ovvero un procedere lento, a lungo meditato. Ascriverei volentieri Della Torre a questa seconda categoria, anche in base a un’osservazione che troviamo nei suoi scritti: «La pittura deve nascere dalla tranquillità; va generata dal silenzio». Aggiungerei a questi parametri la freschezza sorgiva, una tenerezza lirica e fascinosa, per non dire l’innocenza di chi è capace di ascoltare la voce della terra.

Non mi parrebbe perciò arbitrario applicare il concetto di nomos della terra, un concetto strettamente giuridico creato da Carl Schmitt, alle modalità con cui il nostro artista si prende carico di questo elemento primario. Nomos in greco significa non solo legge ma anche “misurazione”, ripartizione dello spazio, agrimensura. Enrico ci invita costantemente a esplorare le articolazioni interne dello spazio, a elaborare paesaggi sotto il profilo della loro matericità costitutiva, delle loro vibrazioni musicali e delle loro virtualità architettoniche. «Architettura naturale cresciuta per strati sovrapposti», come dice Vittorio Gregotti citato da Chiara Gatti. Campagne familiari e ordinate, a partire da quella di Pizzighettone nel Cremonese, che è il luogo natale dell’artista; boschi, monti e fiumi, a leggere i titoli di molte opere, ma anche regioni e città, come Liguria, Ravenna e altre ancora. Una sedimentazione antropica e geologica, come osserva la medesima Gatti: «Tutto un orizzonte terreno che la geometria regola e dentro il quale il suo segno affonda per cercare falde e pietre, per poi estrarne radici, fossili e memorie». Della Torre ha fatto proprio il principio, elaborato da Heidegger, secondo cui il fondamento dell’opera d’arte, prima di accedere al Mondo, consiste nella Terra: «Su di essa e in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo».  Della Torre ce ne ridona tutto il profumo, il gaudio molecolare e le scansioni delle sue infinite metamorfosi.

Le opere degli artisti invitati all’omaggio sono tutte di alto profilo, pervase da un’atmosfera che si concilia benissimo con l’universo dellatorriano, seppure ciascuna con la propria singolarità stilistica. Per cominciare dalle sculture, colpisce il ritualismo arcaicizzante di Petra Weiss, che con Tempio (v. l’omonimo dipinto di D.T.) e Onda Scala, concepite in un azzurro metafisico, ci permette di incontrare i luoghi dell’ascesi e della meditazione. Il rito, qui, è modulato dalla simmetria perfetta che regola la massa bipartita del tempio, ma anche dall’accattivante serpentina, solido-liquida, della gradinata. Gualtiero Mascanzoni, invece, sorprende per la plasticità metamorfica del suo alabastro, in tensione tra la sinuosità dinamica del corpo principale  e il suo pervenire a una sorta di fissaggio su un parallelepipedo cavo: forse la porta di un’ulteriore metamorfosi. Con le eleganti sculture in marmo d’arzo di Catherine Rovelli, simili per così dire a gigantografie di monili, intitolate Toccate e fuga e Moebius, entriamo nel vivo della topologia: soprattutto nell’enigma di Möbius, che viene celebrato al di là dei canoni con il sussidio di venature sgargianti, quasi a prolungare lo spazio del nastro. Veniamo ai dipinti. Nel quartetto senza titolo di Paola Fonticoli, scandito idealmente in sequenze, possiamo seguire lo sviluppo di un corpo ovale. A partire dalla sua genesi su un silenzioso sfondo oscuro al suo arricchirsi di nuovi elementi semiellittici e umbratili, già contenuti in fieri nell’atto generativo ma riassettati in quello finale, tra luminosità e nerezza. Ancora più essenziali nella struttura, e per così dire paradigmatiche, sono le due opere di Beatrice Lancini Balbi: un Cerchio eseguito con vegetali essiccati, ripreso in miniatura al suo interno e in dialogo con quadrati sovrapposti, e una Macina a sua volta consistente in una figura circolare, arricchita da ulteriori elementi che le infondono dinamismo. Il collage Frammento di Paolo Blendinger presenta maggiore complessità. In uno dei riquadri, sullo sfondo verde  –  un ideale prato o tappeto –  si alternano moduli di diversa fattura formale e cromatica. Magari le tessere di un insieme non più ricomponibile, ma la cui disciplinata ripartizione su tre livelli dà vita a una contiguità armoniosa, dove ogni contrasto viene riassorbito. Le Impronte di Laura Fumagalli, in sintonia con i reticoli e gli allineamenti dellatorriani, ci offre una composizione rigorosa e multiprospettica, anche di valenza cinetica per via di quelle simmetrie formali in progress, soprattutto nella parte inferiore, che un po’ ricordano la tecnica fotografica. A riportarci in un clima lirico e di natura cosmica è invece l’azzurro di cui è pervaso il Trittico di Giulia Napoleone. Un puntillismo di natura stellare, caratterizzante la prima e la terza carta, si confronta con i poligoni a incastro di quella mediana, ma senza creare fratture tra loro, dal momento che la solidarietà cromatica d’insieme non ne risente. Tutto verte appunto sulla folgorante luminosità dei biancogialli e degli azzurri. Da ultime, last but not least, le opere di Loredana Müller, che seducono per il richiamo al movimento, ai suoi flussi ritualizzati e a una terza dimensione più che virtuale. Il patchwork trasceso di Strada lastricata, il fiammante vibrare delle tinte in Fiumi, e le curvature filiformi di Insetti, alludono all’élan vital che è peculiare della natura e ne esalta sia il ritmo che i pigmenti in essa custoditi.

E così il cerchio si chiude. I nostri artisti, chi in un modo chi nell’altro, ci hanno riportato alle atmosfere trasognate di Della Torre.

Gilberto Isella

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