In occasione del ventennale della scomparsa dello scrittore istriano Fulvio Tomizza (1999-2019), è stata organizzata in suo onore, presso la Biblioteca cantonale di Lugano, una mattinata di studi, a cui hanno partecipato lo stesso direttore, Stefano Vassere, la direttrice della Divisione cultura e Studi Universitari, Raffaella Castagnola, e numerosi studiosi.
Il luogo scelto per il convegno svoltosi ieri, moderato da Mauro Novelli, non è affatto casuale; come ha subito chiarito Karin Stefanski, collaboratrice scientifica dell’Archivio Prezzolini, la Biblioteca cantonale di Lugano, oltre ad aver accolto Tomizza in numerose occasioni (la sua presenza in Ticino è significativa: fu ospite della RSI, della cattedrale di San Lorenzo in occasione dei Vesperali, della rassegna Confini di Chiasso e fu membro del Pen Club della Svizzera romanda), conserva l’intera produzione dell’autore istriano, donata nel 2004 grazie alla generosità delle eredi, la moglie Laura Levi Tomizza (presente all’incontro) e la figlia Franca, la quale aveva peraltro avviato un primo essenziale riordino delle preziose carte del padre.
Per presentare il laboratorio filologico dello scrittore, nella biblioteca era stata organizzata nel 2009 una mostra con le carte del Fondo, Da Materada a “Materada”; il titolo alludeva sia al villaggio istriano (oggi in Croazia) ove Tomizza nacque, che al suo romanzo d’esordio. In Materada (1960) lo scrittore racconta le vicende che coinvolgono il piccolo borgo vicino alla più grande Umago, in una terra di frontiera, questa dell’Istria, punto d’incontro di tante etnie (Italiani, Slavi e Croati), nei secoli assoggettate alla Repubblica di Venezia, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia e infine inglobate nell’allora nascente Jugoslavia. Tomizza, a seguito del Memorandum d’intesa di Londra, decise di trasferirsi a Trieste, che diverrà presto uno dei temi centrali della sua produzione, insieme a quello dell’esodo, dello sradicamento e dello smarrimento individuale e generale.
Le vicissitudini che Tomizza visse in prima persona – lo ha fatto notare Elvio Guagnini, Professore emerito di Letteratura italiana all’Università di Trieste – lo scrittore le rielaborò positivamente. Dotato di uno sguardo particolarmente lungimirante, esortava a considerare i confini come dei limiti imposti che andavano superati in forza di un’apertura, e la compresenza di svariati popoli come un’occasione di arricchimento. Favorevole all’idea di un’Europa unita, già propugnava che ad essa aderissero Slovenia e Croazia. Tomizza era uno scrittore che non esitava ad avanzare proposte – ha appuntato Guagnigni –, sincero, fuori dagli schemi, diceva le cose che pensava senza filtri, sottoponendo ai suoi lettori anche questioni difficili e problematiche, ma che il tempo richiedeva di affrontare.
Ha offerto uno splendido ritratto dello scrittore istriano anche Ragni Maria Gschwend, che lo conobbe personalmente nella sua Trieste. La traduttrice si trovava qui perché, incaricata di tradurre in tedesco La miglior vita (edito nel 1977, gli valse in Italia il premio Strega e nel 1979 fu insignito del prestigioso premio di Stato austriaco per la letteratura europea), si rese conto della necessità di conoscere più approfonditamente il contesto triestino e lo stesso autore. Nacque così tra i due un’intensa collaborazione e una vera amicizia, coltivata di persona (anche per la traduzione de L’Amicizia si recò a Trieste) e tramite fitti scambi epistolari, ove Gschwend chiedeva a Tomizza dei chiarimenti e lo scrittore, che – lo sottolinea la stessa – si è sempre distinto per la sua gentilezza e disponibilità, rispondeva puntualmente. La preoccupazione della traduttrice nasceva dalla necessità di dotare i lettori tedeschi di tutte le informazioni necessarie (quali i costumi locali e i fatti storici e politici istriani) per far comprendere e apprezzare appieno i libri di Tomizza (riscosse successo sia in Austria che in Germania). In ultimo, la difficoltà di traduzione derivava anche dall’uso di parole regionali, dialettali e slave, utilizzate dall’autore istriano. Su quest’ultimo aspetto si è occupata nel dettaglio Sanja Roić, Professoressa di Lingua serba e croata all’Università di Trieste, la quale ha messo in luce il rapporto tra Tomizza e il mondo slavo, concentrandosi in particolare su Il male viene dal Nord (1984), imperniato sulla figura del vescovo capodistriano Pier Paolo Vergerio.
Su un aspetto poco noto di Tomizza, conosciuto dal pubblico esclusivamente come narratore, si è soffermato Paolo Quazzolo, Professore di Storia del Teatro dell’Università di Trieste. Dopo aver contestualizzato la drammaturgia tomizziana nel contesto del teatro di fine Novecento, ed aver sottolineato l’interesse di Tomizza per il teatro (che si concentra negli anni 1960-1980), ha presentato l’intera produzione drammaturgica dell’autore, ricordando sia opere che hanno conosciuto una realizzazione scenica (Vera Verk, La storia di Bertoldo, L’idealista), sia i testi inediti e mai rappresentati (Ritorno a Sant’Elia, La Finzione di Maria, le Litanie eretiche), raccolti di recente in un volume curato dallo stesso Quazzolo (Teatro, Editoria & Spettacolo di Spoleto, 2019).
Ha chiuso l’intensa mattinata di studi Alberto Cavaglion, Professore di Storia dell’Ebraismo all’Università di Firenze, che ha proposto una sua personale lettura de La città di Miriam (Premio Fiera Letteraria 1972). Dietro i personaggi del dottor Cohen e del filosofo Kekler, Cavaglion ritiene lecito scorgere la figura del suocero dello scrittore, Vito Levi (musicologo e compositore, incoraggia Tomizza a intraprendere la sua carriera letteraria e lo introduce nell’ambiente del mondo ebraico triestino), e il filosofo Dino Dardi (prigioniero militare di un campo di concentramento tedesco).
Questo, dunque, l’omaggio che i numerosi studiosi hanno reso a Fulvio Tomizza, ricordando lo scrittore, ma anche l’uomo.
Lucrezia Greppi