Commento

L’ultimo atto di Stach sul destino segnato di Kafka

Il terzo volume della biografia di Franz Kafka ad opera di Reiner Stach, Kafka. Gli anni della consapevolezza (il Saggiatore 2024) si occupa degli ultimi – difficili – anni di vita dello scrittore praghese. Una condanna, si potrebbe dire, al semianonimato. Al non riuscire a sposarsi, a non riuscire a sopravvivere; il tutto in un contesto post-bellico, di malattia e carestia. Sono gli anni in cui tutti i piani di Kafka falliscono. Nevrotico, ipocondriaco, meticoloso, lo scrittore non accettava le difficoltà della vita passivamente. Non poteva fare a meno di chiedersi se l’amore di una vita, Felice Bauer, avesse davvero un ruolo speciale nella sua vita. E mai nel corso della sua esistenza era stato così determinato a sposarla. Dare dunque le dimissioni dall’Istituto assicurativo dove lavorava, lasciare l’appartamento dei genitori, trasferirsi a Berlino, scrivere a tempo pieno. Kafka desiderava disperatamente intimità e senso nella vita.

Per anni s’era sentito prigioniero a Praga. E effettivamente lo era. Forse più di se stesso che del mondo. «Fui preso dal desiderio infantile di non tornare mai più nel tana», scrisse nei diari. Abituato alla meticolosa quando autoimposta disciplina, Kafka riconobbe che nella sua breve vita si era spesso inflitto notevoli censure. Afflitto da un vuoto depressivo, ma non dalla noia, senza saperlo, Kafka era un genio letterario. Continuava a scrivere diari, accumulando decine di volumi: uno sfogo, una necessità. Ed evitava, come ogni grande, di pubblicizzarlo. Il suo amico Franz Werfel aveva lodato “La metamorfosi”, ma nel complesso Kafka non ebbe in vita il successo che meritava. Berlino è la città dell’ultimo Kafka. Stach ne ricorda la drammatica atmosfera post-bellica. La città era sporca e costosa come Praga, Vienna e Budapest. Anche lì la gente si stava abituando alla vista degli invalidi di guerra nel periodo weimariano.

Anche in questo volume ritornano gli elementi di quelli precedenti: il sesso, l’incapacità relazionale, la routine lavorativa di Kafka. Questioni che, nel periodo post-bellico, si accentuano. Sembra probabile, suggerisce Stach, che Kafka conoscesse più dettagli sugli orrori della guerra rispetto alla maggioranza degli autori del suo tempo. Certamente non aveva bisogno di vedere le trincee per avere un’idea realistica della situazione sul campo, scrive Stach. Che si avventura nella psiche di Kafka, sempre ponderato e che non usava mai il ragionamento deduttivo per il semplice scopo di coerenza. Kafka non aveva né la presciente percezione politica di Karl Kraus, né la mentalità elitaria di Thomas Mann. Ma naturalmente aveva le sue idee sulla guerra, al cui proposito si confidava in particolare con gli amici Max Brod e Felix Weltsch. In questo periodo, la sorella Ottilia David si ritagliò sempre di più il ruolo di madre.

Negli anni della guerra, Kafka aveva intravisto una visione utopica: libertà dal guadagnarsi da vivere, concentrazione sulla scrittura e pace della vita coniugale. Continuava a frequentare i sanatori, come molti ebrei dell’epoca. D’altra parte, a Mariánské Lázně, Fryderyk Chopin, Nikolaj Gogol’, Henrik Ibsen, Johann Strauss, Friedrich Nietzsche e i connazionali Antonín Dvořák, Gustav Mahler e Sigmund Freud hanno trascorso settimane o mesi. Kafka era molto più preoccupato dalla relazione tra pulizia e sporco. Nei diari si leggono i commenti sui denti di Felice, che era spesso dai dentisti, anche se non lo ammetteva. L’11 agosto 1917, lo scrittore scoprì di essere affetto da tubercolosi. Fu un evento maggiore nella vita dell’ultimo Kafka. Weltsch fu la prima persona con cui si confidò al riguardo.

Come sottolineato dalla critica – tra cui Walter Benjamin e Gershom Scholem – Kafka era il classico esempio dell’ebreo tubercolotico. A Schelesen (oggi Želízy), Kafka scrisse la lettera al padre, che però non consegnò mai. Qui conobbe Julie Wohryzek, che avrebbe desiderato sposare. Stach fornisce anche dettagli apparentemente irrilevanti, ma che sottolineano le difficoltà di Kafka e della gente ordinaria del suo tempo. La carenza di alloggi a Praga, ad esempio, era un ostacolo significativo. Kafka aveva assistito al tragico di un collega, il padre di Gustav Janouch, che condivideva non solo un appartamento, ma persino una camera da letto con la sua ex moglie. Nella lettera al padre, di cui Stach non parla molto, emerge la psicogenesi borghese del tempo. Nel 1919, Kafka era al culmine delle sue capacità intellettuali e linguistiche. La lettera, splendida testimonianza autobiografica, è una delle più impressionanti mai pubblicate.

I primi anni Venti sono anche gli anni della relazione con Milena Jesenská – che a differenza di Felice e Julie aveva una personalità più forte di quella di Kafka. Esempio del libertinismo bohémien, Milena aveva avuto due aborti e due tentativi di suicidio. Relazioni lesbiche ed abuso di droghe. Il marito Ernst Pollak era un grande amico di Werfel. In un sanatorio, Kafka incontrò il dottor Robert Klopstock. Nato nel 1899 a Dombóvár, figlio di un capo ingegnere ferroviario imperiale, divenne una delle persone più vicine all’ultimo Kafka e lo accolse nelle case di cura sugli alti Tatra. Iniziò a scrivere Il castello, in cui l’elemento autobiografico è evidente: la storia di uno straniero che arriva in un villaggio, dove non è atteso. Sia K. che Kafka, sottolinea Stach, non riuscivano a liberarsi dai miti culturalmente dominanti della femminilità.

La paura di Kafka di dover affrontare “la donna” era radicata nella sua nevrosi. Il mondo di Kafka era di natura mitica, fatta di antichi racconti dell’Antico Testamento e leggende ebraiche che fornivano da modelli di vita e scrittura. Non a caso la questione della Palestina divenne progressivamente centrale nei pensieri dell’ultimo Kafka. Ebraismo, giovinezza e femminilità: tre buoni motivi per concentrare l’interesse di Kafka per la Terra promessa. Dove si era trasferito l’amico d’infanzia Hugo Bergmann con la famiglia, che poi avrebbe accolto il giovane migrante Scholem. Accantonato il progetto di trasferimento dopo l’addio a Felice, Kafka andava a Berlino ogni volta che poteva. Con Dora Diamant, ricorda Stach, non doveva parlare di piani di matrimonio, di pianificazione familiare, del ruolo dei genitori o nemmeno su come definire la loro relazione per il mondo esterno.

La coppia non poteva godersi la magra pensione – dilapidata poi dall’inflazione. Kafka non poteva permettersi un quotidiano, una serata al cinema, una serata a teatro, un giro in tram non strettamente necessario, o farmaci. Esaurito l’alcol per il fornello, Dora scaldava il cibo con lo stoppino della candela. Comprare libri era fuori discussione. Nelle sue memorie, Dora racconta la famosa storia della bambola di Kafka – ripresa oggi in maniera edulcorata in tanti post dei social media. Alla fine della sua vita, Kafka pesava meno di cinquanta chili. La sua voce era completamente diversa. Il clima disteso e allegro di Berlino era svanito sotto la pressione del dolore. La lotta per la sopravvivenza di Kafka iniziò l’11 aprile. Ammesso al sanatorio Hoffman nei pressi di Vienna, è qui che dopo una lunga sofferenza Franz Kafka si spense il 3 giugno 1924.

Le sue sorelle morirono tutte nelle camere a gas, tra Chełmno ed Auschwitz. Lo zio Siegfried Löwy, il “medico di campagna”, evitò la deportazione suicidandosi. Julie e Grete Bloch – un altro amore di Kafka – furono uccise ad Auschwitz. Milena morì a Ravensbruck. Otto Brod, fratello di Max, ad Auschwitz. Hermann Kafka non visse abbastanza a lungo per vedere l’ascesa dei nazisti, ma la moglie Julie Löwy, che morì nel 1934, sì. L’amico di Kafka, Oskar Baum sarebbe sicuramente stato deportato se non fosse morto nel 1941. Felice emigrò negli Stati Uniti con suo marito Moritz Marasse e i due figli. Brod e Weltsch emigrarono per tempo in Palestina. Dora visse prima nell’Unione Sovietica, poi in Inghilterra. Klopstock emigrò negli Stati Uniti e divenne un rinomato pneumologo. Il mondo di Kafka finì con la sua morte.

Amedeo Gasparini

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