Tutti conoscono gli episodi che concludono i Promessi Sposi, quel “lento assestamento della situazione drammatica” che ha caratterizzato tante pagine del romanzo: la pioggia finale che spazza ogni insidia, Renzo che se ne esce dal lazzaretto, il ravvedimento della monaca di Monza, la morte di don Ferrante. Ma il 38esimo capitolo, l’ultimo, nonostante tutto, rimane strabiliante per la totale assenza di qualsiasi vera e significativa azione; il mondo dei Promessi Sposi sembra fermarsi e svanire nell’inconsistenza.
Per fornire un’interpretazione convincente di questo ultimo complesso capitolo e la sua logica, il prof. Stefano Prandi, Direttore dell’Istituto di Studi italiani dell’USI, nel corso della lettura manzoniana di ieri sera, inizia rievocando la lezione del suo maestro, Ezio Raimondi: “La maturità consiste nel fare un passo indietro e lasciare spazio alle voci degli altri, anche dei nostri maestri che ci abitano e senza i quali non possiamo avere una identità. Anche ora continuo a scoprire quanto sia stato importante per me Ezio Raimondi”. Tra i tanti suoi titoli, il professore ricorda in particolare “Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi Sposi”, un contributo che ha senz’altro aperto nuove prospettive di interpretazione del testo manzoniano. La tesi centrale di Raimondi, espressa nel capitolo titolato emblematicamente La ricerca incompiuta, è che la conclusione del romanzo di Manzoni sia “in diminuendo”. O meglio: la parte finale del romanzo, quando tutto è già accaduto e non resta che la quotidianità, prende la forma niente meno che dell’antiromanzo, segnando, rispetto ai romanzi di formazione del passato, un cambio d’epoca e anticipando addirittura degli esiti novecenteschi.
La critica, secondo Prandi, non ha tuttavia accolto a dovere questo spunto molto prezioso: la bibliografia sull’ultimo capitolo dei Promessi Sposi rimane deludente. La ragione? È ritenuta essere una sezione del romanzo apparentemente di scarso interesse. Ma per il prof. Prandi, appunto, le cose stanno differentemente: il finale del romanzo va a contrastare la logica dell’idillio, la più diffusa nel genere romanzesco. Manzoni, pur non essendo rivoluzionario né sperimentalista, anticipa così alcune soluzioni della narrativa novecentesca. L’antiromanzo infatti si nutre di alcune sue caratteristiche tipiche, che si riscontrano anche in Manzoni: la tendenza metanarrativa (la tendenza cioè a commentare le scelte stesse del narratore) o la dissoluzione della voce narrante. Elementi che, in forma “larvale”, sono già tutti presenti in Manzoni, assieme a un “depotenziamento delle peripezie dei protagonisti”, tipiche invece nel romanzo di formazione. Insomma: con i Promessi Sposi l’affermarsi di una prospettiva nuova, estatica, ma non estroversa e non dinamica.
Dopo i Promessi Sposi Manzoni non si dedicherà più alla scrittura romanzesca e di finzione. L’ultimo capitolo del romanzo è interessante anche in questo senso; incarna il momento di transizione fondamentale prima di questa drastica scelta manzoniana e porta con sé degli interrogativi: fin dove si può spingere l’inventiva del narratore? Che ruolo assegnare, poi, al lettore?
Per Manzoni lo scrittore ha un dovere di verità, mentre il romanzo gioca pericolosamente con il falso. È un’idea su cui l’autore torna a più riprese, ad esempio nella sua lettre a M. Chauvet: grande difetto del romanzo è giocare con il falso, uno “scoglio” in cui ci si può imbattere e affondare. Poi la lettera a Fauriel del 1822, in cui Manzoni dichiara il suo intento di andare contro lo stile romanzesco stesso. Lo scrittore inventa il falso per favorire la partecipazione emotiva del lettore ma in Della moralità delle opere tragiche Manzoni si chiede apertamente se l’autore debba indugiare in questo meccanismo. La risposta non lascia dubbi: certamente no. Al piacere del coinvolgimento emotivo del lettore, Manzoni contrappone il piacere della percezione del vero, che deve prevalere: meno immediato, ma più duraturo, più solido. Il falso può dilettare ma è un diletto effimero che dura poco, perché distrutto dalla cognizione del vero. Il diletto mentale, prodotto dalle idee e dall’assentimento a un’idea invece è più solido, rimane.
“In queste affermazioni – nota il prof. Prandi – c’è sempre un protagonista sullo sfondo: il lettore, che deve assentire, che non deve cedere a un piacere del testo troppo facile. Così, l’atteggiamento del narratore nei confronti del lettore già nel Fermo e Lucia è estremamente didattico, severo”. Verso don Abbondio, il narratore, ad esempio, invita il lettore a conservare la sua preoccupazione per un personaggio più meritevole. Scrivendo del cardinal Federigo Borromeo, invece, il narratore redarguisce: se qualche lettore osasse dire che ci siamo soffermati troppo su questo tema, bisogna concludere o che noi raccontiamo annoiando o che il lettore ha un animo “ineducato al bello morale, avverso al decente, istupidito alle basse voglie, curvo all’istinto irrazionale”.
“È questa intransigenza che mostra un’attenzione e un rispetto molto alto verso il lettore. Gli si attribuisce una funzione cooperativa: il lettore può collaborare con l’autore nella ricerca del vero”. È il caso del capitolo sesto dei Promessi Sposi, in cui fra Cristoforo chiede a un servo di don Rodrigo di riferirgli cos’ha potuto origliare. Una cosa giusta? “Noi non intendiamo dare giudizi, che il lettore risolva la questione da sé, se ne ha voglia”, è il consiglio del narratore. E ancora il narratore, a cap. 17, sui sogni convulsi di Renzo: entrare nella loro intimità è troppo per il narratore, dunque “il lettore se li figuri”.
Addirittura il lettore assurge, a un certo punto, a sorta di giudice. Pensiamo all’introduzione stessa dei Promessi Sposi, quando Manzoni parla delle sue ricerche storiche. Dice che ne citerebbe alcune per convincere il lettore, rendendosi conto che non tutto, di quanto racconta, sembra corrispondere al vero. Al lettore è riconosciuta una funzione critica verso il racconto. Da lettore giudice, il passo è breve per diventare un lettore anche impaziente. Questo accade, ad esempio, nel passo che presenta le opere letterarie del cardinal Borromeo, verso le quali sorge una domanda fondamentale: perché le sue opere non sono celebri come la sua vita? Come mai la letteratura non è pari alla vita? Ma la risposta sarebbe molto prolissa e il narratore, immaginandosi proprio un lettore impaziente, rinuncia a dare una risposta all’interrogativo. C’è una sospensione narrativa dovuta al fatto che il narratore si preoccupa dell’impazienza del suo lettore, assecondandone la fretta.
Quale dunque la chiave per comprendere questa attenzione al lettore, che si ripresenta con tanta frequenza? “La risposta è semplice. Si trascura sempre che la voce che sentiamo nel romanzo non è quella di un narratore ma, a sua volta, di un lettore di un vecchio manoscritto. È la voce del narratore che si sta leggendo una cronaca e si preoccupa di chi poi a sua volta la leggerà”.
“Ma è negli ultimi due capitoli dei Promessi Sposi che si intensifica moltissimo questa dinamica, come se il narratore chiamasse in causa il lettore sempre più di frequente”, avverte il prof. Prandi. “Vi è una convocazione continua della presenza del lettore sulla pagina”, anche in quell’ultimo capitolo, il 38esimo, dove per altro “ci aspetteremmo un lieto fine, il trionfo della giustizia, della provvidenza dell’amore consacrato nel matrimonio, secondo il gusto dell’epoca, come quello del Tom Jones di Henry Fielding o l’Ivanhoe di Walter Scott. Invece, come si diceva all’inizio, assistiamo ad un rallentamento dell’azione narrativa, troppo insistita per essere involontaria”, sottolinea il prof. Prandi.
“Le chiacchiere che fanno capolino nei capitoli precedenti, qui dilagano. Invece di una climax a lieto fine, veniamo confrontati con una serie di contrattempi, di fastidi”. Quale il valore di questa stasi narrativa, di questo indugio? La critica se l’è chiesto spesso. Tra le risposte date quella di Franco Moretti. Per lo studioso, i cosiddetti “riempitivi” (le parti del testo dove non succede nulla) sono fatti apposta per la borghesia, che si specchia in questa ordinarietà della vita che non ha le caratteristiche del gusto tragico, invece appartenente all’aristocrazia, né del basso comico. Un cambio d’epoca insomma: la borghesia chiede alla letteratura uno stile intermedio e Manzoni intercetta questa novità che avanza e reclama spazio. “Del resto – nota Prandi – Renzo stesso alla fine del romanzo si metterà in proprio, diventando una sorta di piccolo imprenditore”.
Ma le motivazioni possono essere anche altre. “Siamo partiti dall’idea che il romanzo per Manzoni sia sinonimo di falsità e quindi dal suo tentativo di scrivere un romanzo che cerchi di considerare nella sua realtà anche l’agire degli uomini. Quindi non dobbiamo mai dimenticare che la tentazione del romanzesco è tenuta lontana lungo tutto il testo dei Promessi Sposi, facendo appello allo spirito critico del lettore e di un narratore che lo sollecita ma anche con la scelta di dar luogo ad un antiromanzo”. Per raggiungere questo scopo, Manzoni osa una scelta ardita: rendere protagonista delle ultime scene del romanzo proprio don Abbondio, che tiene banco come se fosse l’eroe indiscusso del romanzo. “Una vera e propria atmosfera da commedia borghese, con i suoi mezzi toni agrodolci”, commenta Prandi. Don Abbondio, in particolare, usa delle espressioni inequivocabili ad un occhio attento. Riprende immagini, ad esempio, niente meno che dal poeta burlesco del Cinquecento Francesco Berni, appropriandosi della sua stessa logica, una logica alla rovescia, che vedeva nella peste un favore della Provvidenza per fare “pulizia”. “Don Abbondio si rifà ad una tradizione comico satirica che irride la religiosità. In fin dei conti, non è così neutrale l’allegria di don Abbondio alla fine dei Promessi Sposi”. Un vero e proprio antieroe: maestro di una parola che occulta e confonde, quando è nei guai ma quando invece tutto sembra risolversi, maestro di chiacchiere, segno appunto della volontà di Manzoni di mettere in scena una dimensione comica, da commedia borghese. La sua funzione è quella, a mo’ di Sancho Panza, di ricordare che l’uomo è anche inerzia, amor proprio, inclinazione alla realizzazione personale. “Anche questo è realismo, quel realismo che Manzoni perseguiva come norma compositiva”. Una strada, quella di investire le proprie energie in un antiromanzo, ben più moderna del passaggio che le storie letterarie sono solite indicare successivamente come più moderne: il verismo, il naturalismo. “Manzoni salta questa fase e arriva ad anticipare il Novecento”, indica il prof. Prandi, dopo averne fin qui illustrato i motivi.
Laura Quadri