“La vita non ha né vincitori né vinti, si esce sconfitti a metà. La vita può allontanarci, l’amore continuerà” (cit.)
Si svolge nella penombra l’ultima pièce di Begona Fejioo Farina. Una penombra immagine e scenario perfetto dei nostri peggiori incubi. Maraya, questo il nome della protagonista, è una donna che cerca e desidera profondamente il riscatto da una vita davvero troppo crudele: lasciata dall’uomo che ama, quindi costretta a subire un aborto, crede che questo riscatto debba dapprima venire dalla bottiglia, dall’alcool. Ma presto il vizio si rivela per quello che è: la rovina dell’uomo. È così che inizia per lei una “salita” immaginaria al monte della vita, nella stessa condizione di Dante Alighieri che cerca di respingere le tre bestie feroci alle porte dell’inferno. Maraya respinge i suoi incubi, le sue domande assillanti, i suoi fremiti (che percorrono e scuotono per l’intera durata dello spettacolo il corpo dell’interprete, Begona stessa), si rialza, quindi cade, cade spesso.
La stanza in cui si ritira diventa il luogo del suo calvario: racchiusa in un armadio c’è la solita bottiglia, ma lei non ne vuole più sapere, e lotta, lotta incessantemente verso tutte le “soluzioni semplici”. Sì perché “Maraya” è anche questo: la lotta di ciascuno contro quella strada che, nella sua semplicità, ci attrae irresistibilmente, ma che non può che farci scivolare sempre più in basso. L’aiuto arriva, arriva dai ricordi, quelli buoni, anche se pochi, e arriva dalla stessa determinazione interiore che Maraya scopre lentamente di avere in se stessa. Per insegnarci che alla fine siamo noi la miglior medicina a noi stessi. Inutile invocare chi ci ha lasciato, tradito, ferito, nella speranza che la mano tesa ci venga da fuori: cambiare da se stessi è l’unica strada che conduce alla rinascita, così come sul palco c’è solo lei, Begona e la sua magnifica storia da narrare.
Laura Quadri