Lasciamo perdere per un attimo il fatto che «nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come popolo bue» – ovvero «qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di risvegliarne bisogni e istinti primari» – come scrive Giuseppe Antonelli in Volgare eloquenza: il popolo è sovrano. Non c’è dubbio, ma la domanda è: quando mai avrebbe smesso di esserlo nella recente storia di gran parte dei paesi occidentali? Per l’orgoglio demagogico-sovranista e semplificatorio non è importante rispondere a questa domanda: secondo costoro, il popolo “ha perso sovranità” e il nemico principale responsabile di ciò è l’Unione Europea (interessante quanto un certo tipo di rozza retorica sia riuscita a fondere il concetto di UE con quello di Europa, ben diversi tra loro). L’UE – contestabile, a tratti non efficiente e non solidale, burocratica e disattenta – è un insieme di Stati, che conservano quasi pienamente la loro sovranità effettiva, che consciamente – e volontariamente – hanno delegato negli anni passati ad un’entità superiore.
Cosa rende uno Stato “sovrano”? Essenzialmente, uno Stato è sovrano se: primo, può giudicare chi compie reati secondo un sistema giudiziario autonomo e indipendente; secondo, chiamare i cittadini alla leva militare (se il Paese lo prevede); terzo: tassare la propria popolazione (il prelievo delle imposte serve a far funzionare la macchina dello Stato che trasforma – o dovrebbe trasformare – il gettito fiscale in servizi ai cittadini); quarto, battere moneta e disporre di una banca centrale. È evidente che la polemica politica degli ultimi anni – scaturita dalla crisi dei debiti sovrani – si sia concentrata sull’ultimo aspetto: quello monetario, visto che le ingerenze europee in termini di obbligo militare, prelievo fiscale e indipendenza del sistema giuridico sono praticamente nulle.
L’Euro, nato con diversi handicap e non al riparo da critiche, è ritenuto il rappresentate perfetto dei disagi popolari anche da esecutivi – e partiti – di Paesi che non l’hanno adottato. Non tutti i Paesi che hanno aderito all’Unione Europea sono entrati anche nella Zona Euro (Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Danimarca, Svezia). E nonostante ciò, alcuni di essi sono i più virulenti e aggressivi nel lamento contro il trio Bruxelles-Strasburgo-Francoforte, benché siano stati beneficiati dal loro relativo recente ingresso nell’Unione, ricevendo ingenti fondi dagli altri Paesi contribuenti. Praga, ad esempio, ha versato 1.36 miliardi nel 2017 e ne ha ottenuti il triplo, mentre Budapest ne ha versati 820mila (mila, non milioni) e ne ha ricevuti più di quattro (parliamo di miliardi). Però hanno la moneta sovrana! Che vale rispettivamente 0.039 Euro – corona ceca – e 0.0031 Euro – fiorino ungherese –. Nulla di male nel fatto che i Paesi più forti aiutino quelli più deboli, perché la solidarietà tra membri è un pilastro fondamentale della criticatissima Unione.
La retorica demagogica di molti partiti politici impone la versione per cui la sovranità monetaria sia stata persa con l’ingresso nell’Euro: è bene ricordare, che – nel caso – questa è già stata “perduta” quando Tesoro e Banca Centrale si sono separati (in Italia, ad esempio, nel 1981). Ebbene, non avendo più a disposizione d’imperio l’uso della Banca Centrale come stampante di banconote, la classe politica ha dovuto aprire i cordoni della borsa della spesa pubblica, usata in maniera smodata ed inefficiente, come dimostra l’attuale livello di debito di molti Paesi. E c’è chi ancora parla di minibot, bocciati qualche settimana fa dal Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi e dalla numero uno del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde, che gli succederà l’ottobre venturo. Pertanto, chi si lamenta a proposito di una sovranità monetaria perduta è perché vorrebbe accendere autonomamente e senza freni la stampante delle banconote (con tutto quello che poi ne deriva). La costituzione di organi indipendenti e la frammentazione dei poteri – sebbene questa non debba essere eccessiva, onde evitare la paralisi dell’assoluta ingovernabilità – è essenziale per la democrazia e quindi “per il popolo”. Questo, ben più protetto – e quindi “sovrano” – se ad articolare la vita amministrativa dello Stato sono diversi attori.
Charles Kettering, ingegnere americano, direttore della General Motors dal 1917 al 1947, disse che «la chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione.» Un’economia che corre, lascia inevitabilmente indietro qualcuno – complice anche la globalizzazione –, creando lamentele. L’uomo deve essere sempre insoddisfatto: il demagogo di turno potrà sempre illuderlo, appagarlo con parole vuote, cangianti secondo il nemico di riferimento e il clima politico del momento. Nella retorica populistica che gratta il ventre allo scontento (il più delle volte, questo un mero tratto umano, più che un sentimento dovuto al ciclo economico sfavorevole), la colpa è sempre “degli altri”. Dall’Europa alla Ragioneria di Stato, dalle ONG ai mercati, dalle banche ai media, dalla Costituzione ai partiti. Ebbene, chi fa uso della retorica del “rutto libero” – per cui tutti devono sempre e comunque esprimersi su tutto, parafrasando Umberto Eco – dimentica (o fa finta di non ricordare) che in Europa c’è, ad esempio, un Parlamento. Un Parlamento perfettamente “sovrano”, dal momento che è composto dagli eletti dei cittadini degli Stati membri. Quale sovranità perduta? A Strasburgo i parlamentari sono forti del mandato popolare: che poi alcuni paesi abbiano negli anni candidato figure di serie B, o i cosiddetti “trombati” o figure semplicemente non all’altezza e inadatte a ricoprire il ruolo di Parlamentare europeo, è un altro discorso.
Troppo spesso si parla di sovranità perduta (monetaria e “nazionale”): questa, in gran parte dei Paesi europei, grosso modo, è stata semplicemente limitata. Davvero sarebbe meglio un ritorno alla grande patria, alle frontiere, alla moneta nazionale e quindi all’eventuale abuso da parti di alcuni membri della classe politica della stampante del denaro?
Amedeo Gasparini