Prima di Natale, la pagina Café Littéraire su X ha lanciato un sondaggio in cui chiedeva al pubblico con chi avrebbe passato una serata tra Franz Kafka, Milan Kundera, Hermann Hesse e Robert Musil. Il quarantatré per cento ha scelto Kafka. Al secondo posto si è qualificato l’altro ceco più famoso del secondo Novecento – scomparso peraltro qualche mese fa a novant’anni. Bronzo al Nobel di Montagnola, poi l’autore de L’uomo senza qualità. Il sondaggio non ha alcuna rilevanza scientifica, giacché la letteratura non possono seguire la logica delle percentuali di gradimento. Il gusto per la letteratura è personale per definizione. Tuttavia, il risultato è significativo: l’homo Kafka piace. Egli è un simbolo, una liturgia, un mito. Non tutti conoscono la sua opera, ma tutti conoscono questo nome corto, semplice. Che apre un mondo di sentimenti, emozioni, episodi, personaggi, idee. Già perché parlare di Kafka è parlare di un universo aggrovigliato.
Il 3 giugno prossimo saranno i cento anni dalla scomparsa dello scrittore. Sono già partite le iniziative editoriali di ogni genere per ricordare l’anniversario a tre cifre. Così atteso, perfetto, nel celebrare anche l’imperfetto quanto eterogeneo Kafka. Chi si occupa di scienza politica, specialmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, si è imbattuto in innumerevoli analisi che hanno visto Kafka al centro di analisi politiche. Kafka evitò interpretazioni politiche delle sue opere e rifiutò di essere etichettato come autore politico. Ma questo non ha impedito di rileggerlo post-mortem come un enunciatore saggio e timido dell’ignoto e della paura. Ma anche dell’alienazione e dell’oppressione. Dell’amore e della tenerezza. Kafka ha accolto in sé tanti grumi di contraddizioni umane e personali del suo essere molti umani e molte identità, concentrate su di un individuo che si applicava sempre con pena nel complesso tentativo di stare al mondo.
È possibile interpretare alcuni elementi delle opere-groviglio di Kafka in chiave politica, considerando il contesto storico e sociale in cui egli visse. Kafka nacque centoquarant’anni fa nell’impero multi-identitario e crepuscolare per eccellenza, quello asburgico, in un periodo segnato da tensioni etniche e sociali. La sua opera è nota per la sua complessità e ambiguità, spesso focalizzata su temi come l’alienazione, l’isolamento umano e la natura burocratica e oppressiva della società. Diverse sue opere possono essere interpretate come riflessioni sul potere anonimo angosciante e l’individuo impotente di fronte a strutture assurde. La sua critica sociale potrebbe essere vista come una reazione al potere visibile e invisibile e alla mancanza di senso nella società. I cento anni dalla morte dell’homo Kafka sono un’occasione per riflettere sul fatto che gli esseri umani sono impasti eterogenei di virtù e difetti, sentimenti, identità, periodi storici. E perché no, anche di contraddizioni.
Amedeo Gasparini