«For here am I sitting in a tin can. Far above the world. Planet Earth is blue. And there’s nothing I can do». Così cantava David Bowie nel 1969, quando con “Space Oddity”, siglava un classico intramontabile nella Storia della musica. Paolo Nespoli quel piccolo shuttle di metallo lo conosce bene. Nel suo caso, si chiama ISS (International Space Station) e il pianeta blu lo guarda dall’alto. Oltre che ingegnere, astronauta e sognatore, Nespoli – ieri sera all’Auditorio dell’USI di Lugano – è un fotografo curioso. Sulla stazione spaziale ha scattato mezzo milione di foto. Dall’alba che ci mette sette secondi a issarsi, ai cinque continenti che si alternano agli occhi dell’astronauta sulla coffa dell’ISS. «Oramai sono in pensione».
All’inizio degli anni Novanta, Nespoli ottiene Bachelor e Master of Science a New York fino ad indossare la mitica tuta bianca da quindici milioni di dollari. Uno scafandro da palombaro delle stelle. «Ho dovuto imparare l’inglese – visto che a scuola avevo studiato il francese – e anche il russo. Ci è voluto molto tempo, ma alla fine ce l’ho fatta». L’astronauta parla delle sue missioni: «Quando andiamo nello spazio non andiamo sulla Luna, ma sull’ISS, una casa-laboratorio che orbita a quattrocento chilometri dalla Terra». A bordo della navicella «si sta come in una macchina che ci tiene in vita: una sorta di rene artificiale. Quando è esposti al Sole, fuori si arriva fino a duecento gradi, per poi passare a meno centocinquanta quando si è all’ombra». Ma come si arriva alla stazione?
Nespoli illustra al pubblico il processo di tre fasi. «Il lancio e quindi l’aggancio alla stazione – dalle sei alle trentadue ore – poi il lavoro effettivo sulla stazione – circa tre mesi – e poi l’atterraggio sulla Terra, anche qui, di quattro-cinque ore. Il nostro equipaggio era composto da sei persone». Chi arriva nello Spazio deve abituarsi alla microgravità: «è come se provaste a mettervi per un’ora a gambe all’aria e testa in giù sul divano». Il cervello impazzirebbe, ma la cosa più importante è evitare lo scioglimento delle ossa. «Nello Spazio perdiamo più del dieci per cento di calcio che perdiamo sulla Terra. E c’è il rischio che il nervo ottico venga schiacciato e il cervello compresso». La giornata tipo del “Paolo Nespoli stellare” sull’ISS inizia alle sei del mattino.
Un’ora e mezza dopo inizia il servizio, «per un totale di otto ore e mezza di lavoro, due e mezza di esercizio fisico, un’ora di pausa pranzo». Nel complesso, il processo di preparazione «dura molto tempo. Si parla di due anni. Veniamo mandati in diversi laboratori in giro per il mondo. Tre settimane in Giappone, altre tre in Russia, poi ancora in Europa e anche in America». Prima di stazionare per tre mesi sospesi tra la Terra e il nulla, se non altro, gli astronauti non possono dire di non aver viaggiato il loro pianeta. Esercitazioni e ancora esercitazioni. Anche quelle di pazienza. «È bene non litigare sulla stazione spaziale», avvisa Paolo Nespoli. Già due persone in casa spesso fanno fatica a convivere; figuriamoci sei.
«Una volta siamo andati in Alaska», spiega. «Hanno lasciato me e la squadra da soli per due settimane a solcare laghi, fiumi e mari ghiacciati. Dovevamo fare centocinquanta chilometri in kayak», il tutto per sviluppare lo spirito di gruppo. «Un’altra volta siamo stati per settimane nelle caverne della Sardegna», con cunicoli da trenta chilometri inesplorati. «In Russia abbiamo dovuto costruire una capanna con un paracadute e soccorrere un collega che si era rotto una gamba». E poi «prove con la contaminazione dell’atmosfera», «un incendio nella capsula», «un’intossicazione alla base». Vita e morte: sulla Terra, come nello Spazio.
Amedeo Gasparini