“Parole posate” per una vita spezzata in cerca di una mano tesa, di una via di fuga offerta, di una carezza amica. Affrontare il tema delle violenze domestiche non è mai facile; significa penetrare nell’intimità di una casa, guardavi dentro, scostare il velo della sfera privata, e penetrare dinamiche a volte molto complesse come quelle famigliari. Ma la violenza non è mai accettabile. Esige fermezza nella denuncia, convinzione nella difesa, infine capacità di accogliere la vita violata. Marco Meier, con la sua nuova mostra, vuole parlarci un po’ di tutte queste cose assieme: della difficoltà di riconoscersi soli, vulnerabili, magari sopraffatti da un destino di violenza che ci sembra già segnato, e in mezzo al terrore, di saper gridare aiuto. Lui una donna così, “sopraffatta”, l’ha incontrata per davvero e si chiamava Lucrezia, “minuta”, ricorda lui, la voce quasi spezzata dall’emozione durante il vernissage di questa sera, venerdì 26 luglio.
“Andavamo da lei due volte l’anno, il tempo di una merenda”, racconta. Strano a dirsi, ma una cosa che colpiva di quelle visite era una: le posate, posate d’argento su un tavolo di legno. La merenda veniva offerta e assaporata con quelle. E proprio da quegli oggetti tanto comuni e singolari al contempo Marco ne ha fatto emergere una storia, anzi “la storia”, tutta quanta, senza veli, senza reticenze, quella della povera Lucrezia, che non osava parlare, se non con gli occhi, e che ora si trova “sepolta accanto a un marito che non l’ha mai amata”.
Un po’ accusa, un po’ carezza, Lucrezia ora con questa mostra si riprende la vita che le hanno rubato. Una vita che ti parla di solitudine, quando visiti questa mostra, che ti parla di “solchi nell’anima”, non si capisce se quelli di Lucrezia stessa o quelli che ti lascia come visitatore. Sì, perché da espressioni artistiche simili rimani immancabilmente segnato. Fosse per quella forchetta attorcigliata su se stessa, che Marco intitola “solitudine” o per quelle forchette sbilenche che graffiano un supporto di cartone ma che gridano “io esito”, anzi “io resisto”.
È dunque un racconto, in fondo, di resilienza, questa mostra. È la capacità di vedere una bellezza nascosta: quella che Lucrezia si portava dentro e che nessuno, neanche un marito violento, avrebbe mai potuto strapparle completamente. No, la bellezza non si ferma, l’anima non si scalfisce.
Dopo l’acclamata “Per te. Le scatole di Julie”, quest’altra mostra di Marco Meier è qui per dimostrarlo. Egli abbina le parole agli oggetti come pochi sanno fare, a tal punto che guardare le sue opere, come ha ricordato durante il vernissage Nicoletta Mongini, è una vera e propria “coltellata al cuore”, in questo caso si può dire quasi letteralmente, dato che le protagoniste dell’opera sono loro, le posate di quelle fantomatiche merende. “Marco le posate le ha fatte urlare”, specifica Nicoletta. Urlare di dolore, urlare di rabbia forse, ma un urlo che, in fondo, sa anche di libertà. Del marito violento nessuno si ricorderà, di Lucrezia, invece, sono sicura, tanti e tante di noi, che commossi abbiamo assistito al vernissage di questa sera, si ricorderanno.
A rendere ancora più vivo il messaggio, durante la serata, la sentita interpretazione musicale di Moira Albertalli e Sara Calvanelli (Les Pralines). Un po’ cantando, un po’ suonando hanno donato voce anche loro a Lucrezia e fornito la chiave di lettura dell’intera mostra: “Dovrai sapere leggere le parole che non so scrivere”.
La mostra sarà visitabile dal 27 luglio all’11 agosto, da giovedì a domenica (ore 15:00-20:00) alla “Casa dei russi” del Monte Verità. L’ingresso è libero, e Marco Meier accoglierà i visitatori per tutto il periodo di apertura. La mostra è corredata da un ricco catalogo.
Laura Quadri