I campi di concentramento nazisti iniziarono a macinare morte sin dai primi giorni dall’inizio del Terzo Reich: certo, l’industrializzazione dell’eliminazione degli indesiderabili si materializzò in quelli di sterminio e solo dopo la conferenza di Wannsee del gennaio 1942, ma l’ammassamento di esseri umani – ridotti a bestie da macello – nei gelidi Lager del Nord e dell’Est Europa fu tra le primissime misure prese da Berlino. A metà marzo 1933, il governo Hitler – in carica da meno di un mese e mezzo – fece aprire il campo di concentramento di Dachau, nel cuore della Baviera, oggi come allora, locomotiva industriale tedesca. Secondo i dettami del Mein Kampf pubblicato meno di dieci anni prima, il regime aveva stilato la lunga lista degli indegni che a Dachau avrebbero dovuto essere rinchiusi: ebrei, zingari, Rom e Sinti, omosessuali, asociali, vagabondi, truffatori, ladruncoli, tra le tante categorie. E i cittadini “ariani” – popolo auto-purificatore – venivano attivamente incoraggiati a denunciarli e segnalarli alle autorità.
L’antisemitismo moderno non era nato evidentemente con la presa al potere dei nazionalsocialisti (più che i tedeschi, erano francesi, polacchi e russi i più antisemiti d’Europa nel primo quarto di Novecento), ma filosofi, scrittori, intellettuali, imprenditori, così come commercianti, calzolai, tintori, conciatori in territorio germanico da generazioni iniziarono ad emigrare dall’ex Repubblica di Weimar. Erano molti gli indesiderabili che imbracciarono le armi nella Grande Guerra e morirono nel fango delle trincee per uno Stato che li avrebbe perseguitati qualche lustro più tardi. L’ottanta per cento degli ebrei residenti in Germania fino al 1933 aveva la cittadinanza tedesca: ebrei tedeschi a pieno titolo. E tra tutti gli ebrei in Europa, quelli tedeschi erano, paradossalmente, tra i più integrati (nonostante gli asti risalenti ai tempi della Riforma di Martin Lutero).
Certo, “ebrei” (stella gialla), “omosessuali” (stella rosa), “zingari” (stella marrone), “testimoni di Geova” (stella viola), “asociali” (stella nera), ma forse la più terrificante e strumentalizzabile categoria che il totalitarismo hitleriano riuscì ad imporre è quella di “oppositore”; categoria-passe par tout che il totalitarismo utilizzava a suo piacimento per giustificare efferatezze nei confronti di individui e gruppi etnici. L’“oppositore” poteva essere, in questo senso, chiunque. Chiunque si opponesse alla potentissima macchina totalitaria (di propaganda, prima che di morte) nazista era destinato alle gelide baracche che sorgevano come funghi velenosi in Europa orientale. Queste, neppure troppo lontane in termini geografici al cuore della “civilissima” società civile tedesca: i campi di Sachsenhausen e Dachau, ad esempio, erano a trenta chilometri da Berlino, rispettivamente da Monaco (come sempre, ci si chiede: «Com’era possibile non sapere?»).
Nell’ottica di molti cittadini comuni (non mostri, ma figure banali, come scrisse Hannah Arendt) era comodo eliminare gli indesiderati. L’epurazione degli indegni capri espiatori era uno dei grandi collanti sociali nella Germania nazista: create ad arte dal regime e dalle infernali macchine di propaganda le “pecore nere”, molti – troppi – tedeschi avvallarono senza esitazione l’eliminazione degli “scomodi”. Riflettendo sugli orrori dell’Olocausto, Karl Jaspers ha identificato quattro tipi di colpe imputabili al popolo (tedesco e non): colpa “criminale”, quella di chi ha materialmente compiuto gli omicidi di innocenti; colpa “politica”, quella di chi ha aiutato i nazisti ad arrivare al potere; colpa “morale”, quella di chi, nell’indifferenza più totale, non ha fatto alcunché per prevenire le efferatezze del regime; ed infine, colpa “metafisica”, quella di chi non è riuscito a mantenere “standard” adeguati di civilizzazione umana.
A settantacinque anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, la fabbrica della morte per eccellenza liberata il 27 gennaio 1945, è doveroso non solo ricordare i milioni di esseri umani che sono periti sotto la barbarie nazista; è anche il caso di chiedersi cosa si abbia imparato dalle terribili atrocità commesse allora e se oggi nel loro insieme le società – europee e non solo – siano vaccinate rispetto a certi venti di odio e intolleranza che sembrano oramai essere quasi all’ordine del giorno. Secondo un recente sondaggio dell’Anti-Defamation League un cittadino europeo su quattro nutre convinzioni antisemite. L’antisemitismo è vivo e vegeto: ed è l’autostrada spianata che, in potenza, potrebbe riportare indietro l’orologio della Storia agli anni Trenta e Quaranta (nonostante le differenze di contesto ed epoca); quando milioni di individui, percepiti semplicemente come “diversi” (dunque “inferiori”) vennero efferatamente uccisi da un collettivo ed intricato sistema concentrazionario di stampo fordista.
L’odio antigiudaico – un unicum, nel panorama degli “anti” – continua ad allungare i suoi putridi tentacoli all’interno del dibattito democratico e della società aperta. Si aggiunga non da ultimo che spesso «l’antisionismo è la foglia di fico dell’antisemitismo», come ha spiegato Alain Finkielkraut (intervista di Stefano Montefiori, Corriere della Sera, 16 novembre 2019); vista la sovrapposizione che ancora troppi fanno tra “ebrei” e “Israele”. In molti casi, l’odio per lo Stato ebraico – che certamente non è al riparo da critiche, ma che è nato nel 1948 proprio sulle polveri di cittadini che non ha mai avuto – altro non è che l’antico odio antisemita riversato in politica (israeliano non vuol dire per forza ebreo, come italiano non vuol dire cattolico, come tedesco non vuol dire protestante). L’equazione (ebreo-Israele) è comoda: giustifica quasi una sorta di antisemitismo latente e ancestrale. Un antisemitismo che può riportare ad Auschwitz («è successo, può succedere ancora», come scrisse Primo Levi) e che, specialmente in Europa – marchiata per l’eternità dalle barbarie compiute sul suo territorio tre quarti di secolo or sono – sembrerebbe essere inscalfibile.
Amedeo Gasparini