Immersi nel buio e nel totale silenzio: così si presentano sulla scena gli attori scelti da Antonio Latella per la sua rilettura del dramma pastorale di Torquato Tasso, avvenuta ieri sera al LAC. Uno scenario all’insegna del minimalismo e privo di ogni espediente estetico, è questa l’ambientazione scelta dal noto regista italiano e rispondente ad una precisa scelta: «Penso ad una regia che si affidi all’estetica stilistica della lingua, capace di una vertiginosa verticalità, piena di senso e non di analisi». Obiettivo (raggiunto) di Latella è stato dunque quello di far rivivere la grandezza dei versi di Tasso nella loro purezza e potenza, omettendo ogni elemento che avrebbe potuto defocalizzare l’attenzione dalla parola. Ad illuminare i quattro attori, disposti geometricamente sulla scena, vi è la luce calda di un faro che viaggia su un binario circolare.
Rompe il silenzio Michelangelo Dalisi, nelle vesti di Cupido, che, con una recitazione attenta ed asciutta, declama il Prologo d’amore. Si preannuncia così il potere di Amore, capace di far «cadere di mano a Marte la sanguinosa spada, ed a Nettuno scotitor de la terra il gran tridente». “Arma” del figlio di Venere è il potente dardo (rappresentato in forma di matita, nella rielaborazione di Latella), che «imprime amore dovunque fiede», persino nel cuore della «cruda ninfa» Silvia, che non contraccambia l’amore del dolce pastore Aminta.
La seguace di Diana (impersonata da Matilde Vigna) nel duro dialogo con Dafne, la quale vuole convincerla ad abbandonarsi ai piaceri amorosi, esprime con fermezza gli oggetti del suo diletto: «’l mio trastullo è la cura de l’arco e de gli strali; seguir le fere fugaci, e le forti atterrar combattendo». Un’audace Dafne (rappresentata da Giulia Bianca Vigogna) incalza allora Silvia, e la esorta a più riprese a cambiare la sua vita («Ah, cangia, cangia, prego, consiglio, pazzarella che sei»), facendole presente che quella che conduce è «insipida vita» e che ne trae giovamento solo perché non ha provato cosa vuol dire amare: «se tu gustassi anco una volta la millesima parte de le gioie che gusta un cor amato riamando, diresti, sospirando: “Perduto è tutto il tempo che in amar non si spende”». Una sempre più indomabile Silvia ribadisce però i suoi ideali, tanto che ribatte orgogliosa che cambierà vita quando «torneranno i fiumi a le lor fonti, e i lupi fuggiranno de gli agni, e ‘l veltro le timide lepri; amerà l’orso il mare, e ‘l delfin l’alpi». Dafne, atterrita dalla fermezza di Silvia, le chiede da dove nasca il suo odio per Aminta e questa risponde: «dal suo amore […] odio il suo amore ch’odia la mia onestate». Dafne, priva di speranza, predice quindi a Silvia una fine infelice: quando si pentirà sarà troppo tardi, la sua bellezza sfiorirà, e non potrà più godere dell’amore di nessuno.
Prende poi la parola uno sprezzante Tirsi (Michelangelo Dalisi), che parlando con Aminta (Emanuele Turetta), lo esorta a rivolgere le sue attenzioni verso una donna che non lo disprezzi; tuttavia, il giovane pastore ribadisce il suo imperituro amore per la fuggevole ninfa, e vagheggia persino la sua morte, l’unico evento che sarebbe forse capace di impietosire la bella Silvia.
Lo spettacolo teatrale di Latella procede in una sorta di climax ascendente: se inizialmente le parole degli attori emergono dal totale silenzio, si avverte già in queste scene il suono insistente di un basso, che inizia a incalzare il recitato degli attori. Un serrato dialogo avviene poi tra Tirsi e Dafne, che progettano un piano per fare incontrare Dafne con Aminta, quel giovane troppo giudizioso, secondo Dafne: «è spacciato un amante rispettoso […] chi imparar vuol d’amore, / disimpari il rispetto: osi, domandi, solleciti, importuni, al fine involi; / e se questo non basta, anco rapisca».
Segue il canto celestiale di Matilde Vigna e Giulia Bianca Vigogna, che intonano un madrigale di Claudio Monteverdi (Lamento della ninfa, VIII libro dei madrigali), ove le voci delle due si sovrappongono, mescidano e rincorrono: a una Silvia che recita «Miserella, ah più no, no, tanto gel soffrir non può» (che ben si adatta al caso di Aminta), Dafne risponde in eco «che sì, che sì se ‘l fuggo ancor mi pregherà? […] né mai sì dolci baci da quella bocca havrai né più soavi» (preannuncio del futuro struggimento della stessa, nel momento in cui scoprirà di amare il pastore quando sembra ormai troppo tardi).
Il piano di Tirsi e Dafne non va però a buon fine, al contrario, contribuirà all’infelicità del giovane innamorato. Nell’Aminta, Silvia viene aggredita alla fonte da un satiro che si appresta a violentarla, quando interviene il pastore che la salva, ma lei, ingrata, scappa senza ringraziarlo. Latella, nella sua perturbante rielaborazione, decide di ribaltare i ruoli originali: non è Silvia a presentarsi svestita alla fonte, al contrario, è il satiro (Turetta) che qui si mette a nudo (letteralmente e metaforicamente). Questi, che si indigna per la crudeltà di Silvia – “trafitto” dalle aste dei microfoni – progetta aspra vendetta: «Quel contrasto col corso o con le braccia potrà fare una tenerella fanciulla contra me sì veloce e sì possente? Pianga e sospiri pure, usi ogni sforzo di pietà, di bellezza: che, s’io posso questa mano ravvoglierle nel crine, indi non partirà, ch’io pria non tinga l’armi mie per vendetta nel suo sangue».
La tensione procede per tutta la seconda parte dello spettacolo, in cui, ad esprimere, cantare e gridare il dolore del pastore Aminta concorrono due canzoni rock, accompagnate dal suono della chitarra elettrica: Rid of me di P.J.Harvey («lick my legs, I’m on fire, lick my legs of desire») e Vitamin C dei Can («a beautiful rose is standing in the corner, she is living in and out of tune […] You’re losing, you’re losing, you’re losing, you’re losing your Vitamin C»). Nel prosieguo Aminta, vedendo un velo appartenente a Silvia sporco di sangue, credendola morta, si getta da una rupe. Giunta la ferale notizia, Silvia, che prova finalmente pietà per Aminta (emozione che Dafne vuole «messaggiera […] de l’amore, come ‘l campo del tuono»), scopre di amarlo, e si pente del suo comportamento: «la mia crudeltate, ch’io chiamava onestate […] fu troppo severa e rigorosa. Or me n’accordo e pento».
Nel finale si scoprirà che Aminta è sopravvissuto, e giunge così a lieto fine la vicenda dei due protagonisti del dramma pastorale. Il dardo d’amore (che nel procedere dell’esibizione, Cupido, appuntendolo, ha ridotto a polvere) ha dunque infine colpito la crudele ninfa. Lo spettacolo si chiude come era cominciato, nel silenzio, da cui si staglia la voce commossa di Venere (Dalisi), che, chiedendo notizie del suo fuggitivo figlio, scompare nel buio: «Ditemi, ov’è mio figlio? ma non risponde alcun? ciascun si tace? non l’avete veduto? fors’egli qui tra voi dimora sconosciuto? […] Datemi, prego, del mio Figlio avviso ma voi non rispondere? forse tenerlo ascoso a me volete?».
Lucrezia Greppi