Corte della Contessa è (stata) l’ideale destinazione per il delicato racconto di Elisabetta Salvatori (che ad Arzo ha portato anche La bimba che aspetta, ndr) attorno alla figura di Giacomo Puccini. Una corte elegante, ampia, contornata dai verdi delle piante dell’erba e gli arbusti, per raggiungere la quale occorre percorrere un romantico ciottolato che guarda sui prati e i tetti di Arzo; che il primo settembre, anche con questo spettacolo, ha sigillato la XX edizione del Festival internazionale di narrazione dando appuntamento al suo affezionato pubblico a fine agosto 2020. Lo spettacolo si intitola Piccolo come le stelle, perché in pochi sanno che uno dei maggiori e più significativi operisti della storia musicale, Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria Puccini (come dire che eran già tanti alla nascita i personaggi, qui nomi, che lo popolavano, anche se in questo caso trattasi di trisavoli) ha sempre temuto di non essere all’altezza delle aspettative del pubblico, del suo editore (l’amatissimo Ricordi) e della critica, che amava osannarlo e stroncarlo con identico impeto. Il monologo dedicato al compositore lucchese è stato imbastito affondando le mani nelle pieghe più remote, intime e quotidiane della sua biografia. Anche fisicamente, con le gambe e con il fiato e le iridi: perché la versiliese Elisabetta Salvatori, autrice e interprete in punta di piedi di questo ritratto biografico, le strade che Puccini calpestava le ha percorse, come ha sostato dove lui arrestava il passo e lo sguardo, rapito da chissà quali suggestioni. La narrazione procede cronologicamente ed è accompagnata dalla musica del Maestro, tanto che fra il pubblico c’è chi accenna un timido “Il mio mistero è chiuso in me” o un più robusto (nell’intenzione, ma sempre sottovoce) “All’alba vincerò…”. L’attrice esordisce ricordando le monetine che il babbo di Giacomo metteva sui tasti del pianoforte affinché il bambino venisse invogliato a suonare lo strumento. E accadde, accadde eccome quell’innamoramento che non avrebbe conosciuto rivali. Da quel seme nacquero opere che noi appassionati – o anche solo noi curiosi – andiamo regolarmente a vedere nei maggiori teatri ai quattro angoli del mondo insieme a milioni di altre persone, giovani e meno giovani, ricche (platea) e meno ricche (piccionaia). Lo spettacolo, che ha debuttato al Giglio di Lucca nel 2016, congiunge memorie biografiche ed emozioni, fascinazioni, occasioni mondane e tradimenti ricorrenti. Perché Puccini amava le donne, e dentro di loro entrava come si entra in chiesa: con rispetto… una battuta dello spettacolo particolarmente riuscita. Sono più di 8000 le lettere dell’epistolario pucciniano che, come ricorda l’autrice-attrice nelle sue note allo spettacolo, sono state la sua principale fonte di documentazione e ispirazione. All’interno di questo universo, Elisabetta Salvatori ha certamente valorizzato il rapporto di Puccini con la musica, della quale non poteva fare a meno in nessun momento della vita – che stesse bene o male, che fosse allegro o depresso – perché lui la musica la introiettò e visse quand’ancora era nella culla, essendo nato in una famiglia di musicisti. Generosissimo nell’arte, un po’ meno con le sue donne e soprattutto con la moglie Elvira Bonturi (madre dell’unico figlio, Tonio), che ai suoi occhi invecchia troppo presto e s’allarga ancora prima. Dicasi impenitente donnaiolo, anche se timido, cordiale nei salotti bene dell’epoca, non classicamente un dongiovanni. Nemmeno alle amate sorelle andò in soccorso con convinzione quando si trovarono in ristrettezze economiche, e questo nonostante il suo approdo alla ricchezza fu immediato e assunse grandi proporzioni; ma questo è l’uomo quotidiano che dorme (o spesso si nasconde) dietro a ogni personalità pur geniale. In questo differiva molto da Giuseppe Verdi, di cui si stupiva essere considerato il successore. Un bel viaggio alla scoperta della genesi di Le Villi, Bohème, Madama Butterfly, La fanciulla del West, l’incompiuta Tourandot e molte altre creazioni pucciniane. Un’infarinatura. Una lezione su Giacomo Puccini messa in scena per amore. Un sentimento che grazie alla musica del Maestro cavalca i decenni e approda – a quasi cent’anni dalla scomparsa del suo autore e in tutto il suo candore – nel paesino del Mendrisiotto che ha più dimestichezza con le storie. E con le beffe: come quella che la vita ha riservato a Puccini sul finale: tumore alla gola, là dove sgorga il canto, il bel canto…
Margherita Coldesina