La salute della popolazione viene prima di ogni altra cosa. Lo abbiamo sentito ripetere a lungo in questi giorni di quarantena ogni qualvolta veniva annunciato un provvedimento di restrizione delle attività lavorative o delle libertà personali.
La salute deve prevalere su tutto. Così abbiamo cominciato col telelavoro, col mantenere la distanza sociale, col non frequentare luoghi affollati. Poi è arrivata la chiusura delle scuole, delle case anziani, dei locali pubblici. Alla fine, l’annuncio di una settimana fa che ha fatto arrabbiare Berna: chiusura dei cantieri e di tutte le attività commerciali e produttive fino al 29 marzo.
Una decisione che ha provocato la stizzita reazione degli ambienti economici d’oltre San Gottardo (mentre quelli ticinesi, va sottolineato, hanno compreso le ragioni dell’autorità cantonale). Secondo Hans Hess, presidente dell’Associazione dell’industria metalmeccanica ed elettrica Swissmem, e Valentin Vogt, presidente dell’Unione svizzera degli imprenditori, «un arresto completo come quello avvenuto in Ticino non è nell’interesse dei cittadini. Porterà problemi nella fornitura di tutta la Svizzera». A rincarare la dose ci si è messo pure il consigliere federale Guy Parmelin, che ha dichiarato: «là dove l’economia può funzionare, bisogna lasciarla fare. Vale per i cantieri e per le imprese che riescono ad andare avanti, altrimenti c’è il rischio di interrompere le catene di produzione».
La loro posizione è chiara: senza produzione il sistema collassa e i problemi che deriverebbero si aggiungerebbero a quelli provocati dall’epidemia. Un ragionamento che non fa una grinza, in situazioni normali. Il problema nasce però dal fatto che in Svizzera interna non si rendono (ancora) conto di ciò che sta avvenendo a sud delle Alpi. È una Svizzera a due velocità. Una che pensa di trovarsi di fronte a un’influenza virale controllabile e gestibile (come all’inizio alcuni pensavano anche in Ticino); un’altra dove la salute pubblica è gravemente minacciata e la tenuta del sistema sanitario rischia di collassare se non si rallenta la diffusione dell’epidemia.
Se si permette che i frontalieri, quelli che provengono cioè dalla regione italiana più colpita, continuino a entrare quotidianamente in Ticino rischiando ad ogni passaggio di esportare il virus; se si lascia che gli operai continuino a lavorare a stretto contatto tra loro; se ci saranno ancor più lavoratori ammalati o costretti a rinchiudersi in quarantena; se sui cantieri e nelle aziende è impossibile controllare che le norme vengano rispettate perché questo Cantone è in piena emergenza, e ha altri gravi e più urgenti problemi da affrontare, allora ci si renderà conto anche da parte di coloro che oggi invocano la continuità delle attività produttive che sarà l’economia stessa ad essere a rischio.
Lo hanno capito benissimo imprenditori, commercianti e responsabili d’azienda ticinesi quando il fronte dell’epidemia è avanzato. E dieci giorni di fermo totale sono diventati il male minore rispetto al rischio futuro. Occorre però tener conto che l’economia non gioca la sua partita da sola. In campo ci sono anche altri giocatori che diventano decisivi per vincere la sfida: le banche e lo Stato. Mai nella storia della Confederazione sono state messe in atto misure finanziarie come quelle in vigore da un paio di giorni.
Tutto questo, però, non deve far dimenticare che fra la salute dei cittadini e le attività produttive, prima di ogni altra cosa viene la salvaguardia della salute. E l’economia, nel suo stesso interesse, deve essere al servizio di questo imprescindibile valore.
Luigi Maffezzoli