Commento

Quarant’anni di Creuza de mä, ballata innovativa e mediterranea

Nel 1984, Fabrizio De André e Mauro Pagani diedero vita a un’opera che avrebbe segnato indelebilmente la storia della musica italiana: “Creuza de mä”. A quarant’anni dalla sua pubblicazione, l’album continua a essere celebrato come una pietra miliare non solo della carriera di De André, ma dell’intera scena musicale italiana. La scelta audace di cantare interamente in genovese, una lingua per secoli veicolo di comunicazione dei navigatori nel Mediterraneo, si rivelò vincente. E sfidava, contro ogni previsione, le convenzioni dell’industria discografica del tempo. Il risultato fu un successo straordinario di critica e pubblico, che elevò il disco a simbolo di innovazione e autenticità cantautoriale. L’album si apre con la canzone omonima, un brano che introduce sin da subito l’ascoltatore nel mondo marinaro e mediterraneo. Si evoca l’immagine di un viottolo di mare, metafora del viaggio e dell’esplorazione. I marinai protagonisti tornano a terra dopo lunghe traversate, ritrovandosi nella stessa città.

De André canta le loro sensazioni, mescolando la durezza della vita di mare con l’ironia e la diffidenza verso un mondo terrestre che sembra non appartenergli più. Il viaggio continua con “Jamin-a”, un inno all’erotismo e alla sensualità che celebra la figura di una donna del porto (“sultan-a de e bagasce”). Una delle opere più esplicite e “carnali” della produzione faberiana, dimostrando la sua capacità del cantautore genovese di trattare temi erotici ed audaci con la solita raffinatezza poetica. In “Sidún”, invece, si giunge nel cuore doloroso del conflitto libanese. Si parla della tragedia di un padre che perde il figlio nella guerra civile. Nella quarta traccia, “Sinán Capudán Pasciá”, offre un esempio della capacità di De André intrecciare storia e poesia. Il brano narra la vicenda di Scipione Cicala, nobile genovese catturato dai Mori e divenuto poi Gran Visir ottomano.

Una metafora sonora della riflessione sulla natura mutevole dell’identità e sul flusso incessante della vita. “‘A pittima” ci riporta nelle strade dell’antica Genova, presentandoci la figura dell’esattore di debiti. Un ritratto allegorico, ironico e pungente. “A duménega” è il pezzo più satirico dell’album. Con il suo ritmo di ballata popolare, si ripercorre il “rito” della passeggiata domenicale concessa alle prostitute nella città di mare nel passato. De André mette a nudo l’ipocrisia e il falso moralismo della società, attraverso le reazioni contrastanti dei vari personaggi al passaggio delle donne. Un affresco ironico, beffardo, che critica la doppia morale borghese. L’album si chiude con “Da a me riva”, che lentamente accompagna l’ascoltatore al tema dell’addio, chiudendo idealmente il cerchio aperto dal disco. Un componimento nostalgico di un marinaio che saluta la sua amata e la sua città prima di imbarcarsi risuona come un’elegia alla vita errabonda del mare.

Il brano sintetizza l’essenza dell’opera: il legame tra l’uomo e il mare, tra la terra ferma e l’orizzonte infinito, tra l’amore e la separazione. Il tutto coperto da un velo di nostalgia, nonostante gli attimi “ludici” della vita. A quarant’anni dalla sua uscita, “Creuza de mä” continua a essere celebrato come un capolavoro senza tempo. La sua influenza si estende ben oltre i confini della musica folk o d’autore. Ha aperto la strada a una nuova concezione di world music e di contaminazione tra generi. La scelta – coraggiosa, occorre dire – di cantare in genovese, lungi dall’essere un limite, si è rivelata un punto di forza, dimostrando come la specificità linguistica e culturale possa diventare un veicolo dell’universalità. Insomma, “Creuza de mä” resta un faro di innovazione artistica e di profondità poetica. Un’opera che continua a navigare le acque del tempo, sempre attuale e sempre capace di emozionare.

Amedeo Gasparini

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