Babel

Renata Colorni ospite d’onore a Babel Festival

La traduttrice Renata Colorni e Ilide Carmignani a Babel Festival 2021 © Marta Panzeri

Luce, vitalità, simpatia. Renata Colorni, ospite d’onore della serata di apertura della 16esima edizione di Babel Festival – com’è tradizione, nella magica cornice dell’ex convento delle Agostiniane, a Monte Carasso – decide che ad accogliere la nutrita platea di spettatori – curiosi di ascoltarne l’esperienza e, magari, di rubarle qualche “segreto” del mestiere – debba essere anzitutto quell’entusiasmo e quella vitalità che da cinquant’anni a questa parte contraddistinguono anche il suo modo di lavorare, senza che un solo giorno da traduttrice l’abbia mai annoiata. Ad oggi 81enne, Colorni è infatti testimone vivente di mezzo secolo dell’editoria italiana: laureata all’Università di Pavia, inizia nel 1969 a lavorare per la FrancoAngeli. Nel 1973 è chiamata da Paolo Boringhieri a curare l’edizione italiana delle Opere di Sigmund Freud. Dal 1979 al 1995 lavora alla Adelphi per cui, oltre a rivedere tutte le traduzioni dal tedesco, traduce in proprio autori quali Elias Canetti, Thomas Bernhard, Franz Werfel, Arthur Schnitzler, Friedrich Dürrenmatt, Joseph Roth. Dal 1995 lavora con Arnoldo Mondadori Editore per cui dirige prima il settore Classici e I Meridiani, infine l’intero settore dell’editoria letteraria. Pochi del pubblico di Babel sapevano, però, che Colorni proprio alla Svizzera deve addirittura la vita: «Arrivai a Bellinzona nel 1943, assieme alle mie tre sorelle. L’anno seguente, a causa delle leggi razziali, mio padre sarebbe stato deportato. Grazie ai ticinesi Teresa e Bruno Caizzi io e le mie sorelle, invece, siamo state accolte in Svizzera. Per noi, ebree, la salvezza».

Ieri sera, a Babel, assieme a Ilide Carmignani, ha presentato il suo libro Il Mestiere dell’ombra, sorta di autobiografia o, come lei stessa ha ammesso, «libro di riflessioni sulla traduzione a partire dalla mia personale esperienza».

Di “ombre”, il mestiere del traduttore ne ha tante; bisogna imparare a capirle e poi anche ad amarle. Tanto più se, prima di essere traduttore, sei revisore, come capitò alla Colorni al suo primo importante compito: ritradurre Freud. «È un servizio quello del revisore, che richiede una forma di oblatività doppia. Ci si mette al servizio di una storia, anzitutto. Parlare di cura e di accudimento, in questo caso, è pertinente. La traduzione è lavoro d’ascolto, di accoglienza, che richiede anche di dimenticarsi di sé stessi per fare spazio all’altro; la strada per restituire un testo è farsene permeare. Ma poi come revisore devi avere anche rispetto del traduttore che ti ha preceduto, fino a fare un passo indietro, quando comprendi il motivo di una scelta linguistica. Insomma, devi metterti da parte due volte».

Tradurre Freud non è stato certo semplice: «Le traduzioni saggistiche esigono una grande competenza della materia da tradurre. Quando non traducevo, studiavo. Ho studiato tanto la psicanalisi, a un certo punto ho persino ventilato la possibilità di lasciare il mondo della traduzione, per consacrarmi alla psicoanalisi. Ma avevo famiglia e non potevo permettermelo. Per fortuna hanno poi apprezzato il valore letterario della mia traduzione e sono stata chiamata da Adelphi».

L’avventura Adelphi durerà 16 lunghi anni: «Erano gli anni della grande fioritura, in Italia, della letteratura Mitteleuropea: una stagione fiorente, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Mi è molto servito. Soprattutto ho capito una cosa fondamentale: una buona editoria si fa con buone traduzioni. Avete presente Georges Simeon e Joseph Roth? Qualcuno, ancora oggi, afferma che sia stata Adelphi a “scoprirli”. Non c’è niente di più sbagliato: erano autori che venivano letti già da molto prima. Adelphi però ha avuto l’intuizione di rivederne la traduzione e questo ha fatto la fortuna della casa editrice. Una buona traduzione cambia la faccia del libro e la voglia dei lettori di leggerlo. È fondamentale».

Il mestiere del traduttore è spesso contrapposto a quello dello scrittore. Ma che ne pensa Colorni da traduttrice esperta? «La traduzione non è atto creativo meno importante di quello dello scrittore. Lo scrittore scrive per affinare la propria identità; io, per tradurre, devo fare l’esatto contrario: farmi nulla, rinunciare alle mie ambizioni per far spazio a una storia nuova. E qui arriva il bello: la possibilità di vivere più vite, di cui di volta in volta mi devo prendere cura. Nel nostro caso il cosiddetto “dilettantismo” – riuscire a spaziare da un argomento all’altro – è una ricchezza: è essenziale essere aperti a più possibilità».

E per il suo futuro, cosa immagina? «Mi hanno proposto di tornare sulla traduzione dei Diari di Kafka, ma non me la sento. Quei diari sono il cuore del suo dolore. Tradurlo vorrebbe dire rimanere in quel dolore, condividendolo, per 4-5 anni e non me la sento. Penso piuttosto di concentrarmi su qualche altro racconto di Thomas Mann».

E noi, da lettori che ne hanno saputo amare la bravura, vivremo il piacere dell’attesa.

(LQ)

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