ll mondo è un libro, e quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina. (Agostino d’Ippona)
Come un flash, non si possono conservare tutti i dettagli, ma emozioni del momento, associazioni che conducono a quei precisi luoghi o istanti. Ad iniziare dai suoni, il barrito d’elefante prodotto da WC del treno e il gentile cucù o il dolce cinguettio dei semafori giapponesi…
Mosca, il gattone di Bulgakov, troneggiante come graffito sulla parete della sua casa e i camerieri ossequiosi e in divisa del ristorante Pushkin.
La stazione notturna affollata e il quadro che annunciava finalmente il binario, lungo sei giorni e alcune ore. Dormire cullati dal ritmo quasi ronfante e regolare, sferragliante di un treno d’antica memoria. Le albe sulla campagna infinita, sfilata di alberi e prati, la scoperta dei fiorellini indaco, il tè di Ivan. Le colazioni in uno squallido ristorante, ripagate dallo sguardo sul paesaggio e andare, andare… Le scoperte delle stazioni, alcune da visitare. La rudezza della Provodnitsza, molto diversa da quella incontrata durante la Transmongolica. La piacevole convinzione di poter vivere senza sapere che ora è…
La magia di un così lungo attraversamento coronata dall’arrivo in una fredda mattinata, 7 di mattina, a Vladivostok, la meta terminale, davanti al monumento alla ferrovia e ai suoi 9288 chilometri. Vladivostok, una città alla disperata ricerca di glorie future, un saliscendi e scalette di ferro che non ne fanno San Francisco, palazzi consunti dal passato e infrastrutture megalomani che sviliscono invece la quotidianità. Il ponte delle meraviglie proteso verso un’isola preda più di memorie che di avvenire.
I cavallini sul lungomare, bardati a festa, l’acuto odore di grigliate, ma anche ristoranti di piacevolezza e tranquillità vintage. La funicolare che mi ha riportato atmosfere domestiche. La monumentalità che vuole racchiudere ogni eroica storia. E già proiettata verso un’altra partenza, un’altra avventura.
L’enorme nave che deve essere passata sotto molti ponti, a giudicare dall’usura… Quasi un cargo che si apre in un vasto aperto ventoso. In mezzo alla nebbia, la tappa coreana, le lunghe pratiche doganali, una grotta connotata da molti simboli e suoni artificiali più che naturali, pur con enormi e scolpite concrezioni del tempo. Una spiaggia desolata e semi-deserta che non reclama, come tutta la città portuale, voglie turistiche.
E ancora, spiare l’orizzonte, dove si materializzano per ore lunghe e sottili, verdeggianti, strisce delle coste giapponesi, che non sembrano finire mai. Il porto e il treno dei Manga, questo il benvenuto orientale.
E da questo momento saranno giardini, vivi di piante, stagni, ponticelli oppure stilizzati in gocce d’acqua, sabbia e rocce… Templi declinati nelle correnti spirituali del buddhismo, solitari o frequentati, raccolti o fotografati, con pagode e trionfali portali bruniti o rossi squillanti, annunciazioni di sentieri e scalinate, caldo umido, sudate e panorami conquistati e degnamente apprezzati.
E storie di perdite e ritrovamenti, lasciandosi andare ad una temporalità che non conosce orologi. E gli animali, le gru rumorose, le carpe colorate, i cervi sacri, mansueti in mezzo alla folla di turisti e fedeli. Grandi pagode e grandi inarrivabili Buddha, i luoghi ammantati di leggende, chiassosi, pacchiani, festosi o concentrati di spiritualità stregante.
E quel mitico padiglione d’oro evocando Mishima, emblema di se stesso e di quelle tante apparizioni e cancellazioni e riapparizioni da cui è contrassegnata l’architettura nipponica…
E ovunque, un misto di contaminazione occidentale e di autodeterminazione tradizionale, inchini ma anche il rifiuto dell’originalità come parte integrante del valore dell’opera d’arte. Il fatto, il rifatto e ancora duplicato all’infinito, uguale a se stesso e mai potersi chiedere realmente a quando risale.
L’interno di un castello trasformato in una esibizione di multimedialità. E il non visto qui ma in tante mostre dell’Ovest.
Tornare a casa e riprendere quello scritto di Parise che fece epoca, L’eleganza è frigida sui viaggi di Marco alla scoperta proprio del Giappone, così vicino e così lontano.
Alla fine un consiglio: andate a Okayama, infinitamente più armoniosa, di una bellezza estatica, rispetto alla caotica e spesso commercialmente sgraziata Kyoto, compressa tra modernità e l’antico rifatto ad uso turistico (salvo naturalmente le oasi di templi e giardini), ma da Okayama, come base, poi potrete andare dove vi pare. Ogni viaggio, qualcuno ha detto, si vive tre volte, io penso che non si smetta mai di viverlo.