Ricostruire un quadro, un ambiente e ristabilire delle connessioni. Un obiettivo apparentemente semplice quello del prof. Gino Tellini, che ieri sera ha tenuto una relazione dal titolo I Promessi Sposi e la tradizione romanzesca italiana, nell’ambito delle letture manzoniane organizzate dall’Istituto di Studi Italiani dell’USI, giunte alla loro penultima puntata. Lascia tuttavia sorpresi il percorso tracciato dal professore, che spiega quanto sia stata innovativa la scelta del Manzoni di consacrare i propri sforzi alla stesura di un romanzo, in un clima letterario ancora fortemente segnato dal classicismo.
«Tutto incomincia nel 1494, il “funesto 1494” come lo definirà Carducci, che vede la discesa in Italia di Carlo VIII e l’inizio delle guerre d’Italia; un momento drammatico, che segna il crollo della sovranità territoriale per l’Italia. L’identità italiana è in crisi; Pietro Bembo cerca una risposta nelle lettere, nell’unità almeno “linguistica e letteraria”. Nasce così nel Cinquecento una letteratura “una e italiana”. Scrive Carducci di questo periodo: l’unità italica non risultò mai così evidente nell’arte come in quel secolo».
Ma – avverte il professore – «occorre in sintesi interrogarsi sul tipo di unità che si è realizzata». Bembo, infatti, si rifà a «un modello di lingua risalente a duecento anni prima». Questo comporta che a prevalere, come modello letterario, sia il primato della lirica, della soggettività dell’io, nell’elaborazione di una lingua – quella petrarchesca e del suo monolinguismo – che si allontana sempre di più dal vissuto.
«Una letteratura sublime, seria, tragica», nota il professore. È la realtà che nel Novecento denuncerà ancora Calvino: l’antilingua, lo scollamento fra lingua parlata e scritta, causata da una “sorta di paura verso la realtà” e dominata dall’io ipertrofico, da quell’amor proprio che per Leopardi sarà il principio universale di ogni vizio umano. Un genere anticlassico e democratico come il romanzo, e in particolare il romanzo manzoniano, non poteva che scontrarsi con questa forte predominanza di un’idea di lingua classica. «Per Manzoni è uno “sliricarsi”, un fatto prima che linguistico, ideologico, di coscienza, etico, che riguarda l’idea e la funzione della letteratura. Il grande romanzo moderno nasce con un autore che sente la necessità di spezzare il cerchio della soggettività e del primato dell’io». In questo, «Foscolo è un precedente fondamentale: avvicina il romanzo alla poesia; tuttavia resta, a differenza del Manzoni, entro i limiti consentiti». Ma che ne è dell’iniziativa del Manzoni, manifesto contro la “trufferia di parole”, la parola manomessa, adulterata come nel classicismo? «Manzoni vive una battaglia, ma non vince la guerra», sottolinea il professore. «Si può dire che solo Verga, Pirandello, Svevo colgano la svolta anticlassica del Manzoni. Quindi Gadda tenterà un faticoso recupero della tradizione manzoniana, ma Manzoni resta sostanzialmente inascoltato, anche se proprio con Gadda si può dire che “volle parlare da uomo agli uomini”».
«Forse – conclude il professore – Manzoni è un autore che la società italiana si merita poco». E la mente corre anche al Leopardi, a cui forse bisognerebbe ritornare nella stessa prospettiva, come ricordato durante gli interventi finali del pubblico e di cui, nella relazione, si è forse sentita troppo la mancanza, essendo nota la capacità del recanatese di passare, proprio come Manzoni, dalla prospettiva soggettiva a quella universale, che impregna tanti dei suoi testi e li rende di rara bellezza.
Laura Quadri