Ci vuole determinazione per portare in territorio svizzero una pièce teatrale incentrata su una delle pagine più bieche della storia svizzera, che ha segnato il destino di trenta mila bambini italiani clandestini, figli di lavoratori stagionali, che dovevano rimanere invisibili, i “versteckte kinder”, rinchiusi negli armadi, mentre i genitori italiani lavoravano come manodopera in Svizzera. Ma riesumare un passato di questa intensità, che in quanto svizzera non mi fa di certo onore perché all’orgoglio patriottico antepongo la sofferenza umana e l’ingiustizia sociale, è inevitabile ma soprattutto diventa un’occasione drammaturgica per riflettere, anche perché tentare di nascondere o negare quel periodo, imposto da una politica scellerata sugli stranieri e la loro integrazione, sarebbe da vigliacchi, quando sull’altare del dolore è stato sacrificato il futuro di tanti bambini innocenti.
Ricostruendo lo stato d’animo di chi ha subito l’onta e l’incomprensibile realtà del non essere riconosciuti in primis come esseri umani, la pièce tratteggia, nel nero di quel dramma degli anni Settanta, una storia di disagio, esclusione e profondo dolore.
Parafrasando il titolo del film di Wim Wenders, che diventa il titolo dello spettacolo prodotto da Mumble Teatro Così lontano così Ticino vengono messi in scena i rapporti tra gli svizzeri e gli italiani di ieri e di oggi, di chi sdogana l’odio, e lo fomenta, di qua e di là dal confine. E siccome, un po’ come nel film di Wenders, il cielo di questi bambini negati e cancellati si è spezzato, è andato in frantumi, ed è stato distrutto, una volta diventati adulti le loro vite rivelano ed esasperano nient’altro che l’espressione di quella condizione disumana, in cui erano costretti a vivere. La comicità che scaturisce dal testo, attraverso le battute, è più vicina dall’imbarazzo che alla volontà di divertire lo spettatore perché quando una realtà è cruda, ma viene trasformata in ilarità, mette inconsciamente a disagio, e allora si ride per rendere meno insopportabile la verità. Il tema del razzismo viene affrontato da Davide Marranchelli (attore e regista) e da Stefano Panzeri (attore) con onestà intellettuale perché i due protagonisti, che reimpaginano la stessa sorte autoescludendosi, autosegregandosi, autosabotandosi e autodefinendosi degli sfigati, (che non devono dare la colpa a una madre depressa, la quale non voleva spingere l’altalena), non si risparmiano battutacce e insulti all’indirizzo della Svizzera e degli svizzeri, come a significare che nessuno è immacolato, che l’odio colpisce indiscriminatamente sia gli uni che gli altri, e dunque razzista è chi il razzista fa. I due protagonisti sono italiani naturalizzati svizzeri che vivono un rapporto idiosincratico con il paese che li ha ospitati, e perciò hanno sentimenti di rivalsa e faticano nel riconoscere quello che di buono hanno ricevuto. Per avere visibilità ed essere finalmente riconosciuti escogitano prima una ridicola rapina e poi un bizzarro rapimento.
Lo spettacolo è andato in scena sabato sera a Locarno con Cambusa Teatro.
Nicoletta Barazzoni