Una lunga distesa di lapidi sul prato secco, quasi congelato da un inverno che non vuole andar via e da una primavera che si è vista solo attraverso il sole che tocca anche gli anfratti più reconditi dell’umanità. Una croce cristiana, la stella di David qualche metro più in là: enormi ed alte nei cieli a cui molti – in quei territori cechi – hanno guardato in attesa di un segno. Anche il più pietoso dei gesti: una speranza di pietà; e invece niente. Dio era morto: ma non solo a Terezín; un nome – assieme a quello di Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald e Dachau – che non ha bisogno di particolari richiami o dilungamenti. Impressionante calpestare con le suole di gomma industriale sporche di fango e sassolini impastati d’acqua le scricchiolanti travi dove le vittime della carneficina nazionalsocialista poggiavano i loro piedi scalzi, ghiacciati dopo gli sforzi disumani patiti nel gelo di gennaio e ardenti nell’afa di agosto. Lunghi lavatoi bianchi multiuso nelle baracche di pietra, brandine di legno: poi la sala della lavanderia e quella del bieco funzionario della burocrazia del Reich, che archiviava nomi e storie nel gorgo dell’indifferenza e nella freddezza di un cassetto che mai più si sarebbe aperto.
La Storia attraversa il campo di concentramento di Terezín, che prima di diventare nota al mondo come Theresienstadt era una fortezza, largamente utilizzata nel periodo asburgico; con fini evidentemente diversi da quelli per cui il luogo è diventato tristemente famoso. La città più ricollegabile al Terezín è Praga, a circa sessanta chilometri dal campo. La capitale ceca era un luogo di gran lustro nell’Impero austro-ungarico, il quale utilizzò il futuro recinto della pre-morte (dal momento che molti prigionieri – in gran parte ebrei – venivano accumulati e poi trasferiti nei campi di sterminio di Auschwitz e Treblinka) anche come luogo di prigionia di Gavrilo Princip. Il 28 giugno 1914 il nazionalista bosniaco – di origine serba – aveva ucciso a Sarajevo Francesco Ferdinando – nipote prediletto maschio dell’imperatore Francesco Giuseppe – che avrebbe dovuto succedere allo zio sul trono viennese. L’agguato terroristico – originato in parte dal mito del panslavismo molto caro a Princip – rappresentò il casus belli all’inizio della Prima Guerra Mondiale, fondamentale premessa per la Seconda, dove campi come quello di Terezín hanno giocato un drammatico ruolo nell’uccisione di milioni di innocenti.
Assunto il controllo della futura Repubblica Ceca – la Slovacchia era già nelle mani del simpatizzante hitleriano Jozef Tiso – il governo di Berlino appuntò il giovane Reinhard Heydrich – che aveva diretto assieme ad Adolf Eichmann la conferenza di Wannsee alla ricerca della soluzione finale per i cittadini di “razza ebraica” – come governatore della regione di Boemia e Moravia. Il Boia di Praga assunse il comando anche della fortezza di Terezín, da anni in disuso: le poche migliaia di contadini che vivevano nel vicinato vennero trasferite altrove, per lasciare spazio all’allestimento di uno dei tasselli della macchina della morte. Più di duecentomila persone di oltre trenta Paesi sono stati incarcerati nella fortezza tra il 1940 e il 1945. Secondo gli archivi del memoriale del campo, oltre un quinto dei prigionieri morì nel fango dell’inverno ceco; quasi centomila invece perirono dopo la deportazione. L’Europa centrale – specialmente quella Nord-Orientale – ospitava molti cittadini di religione ebraica: il ghetto di Terezín – ancora oggi c’è la polemica sul fatto se si tratti di un ghetto o di un campo di concentramento – era lo snodo per la regione cecoslovacca. La fortezza venne anche ri-modernizzata in previsione di nuovi prigionieri: un network di torture fu ingegnerizzato tramite nuovi strumenti e stanze del terrore. E l’acqua arrivava al mulino: con Heydrich – soprannominato anche la Bestia Bionda vista la spietata ed efferata repressione nei confronti degli oppositori sgraditi al regime tedesco – si avviò la massiccia deportazione degli “indesiderati” dalle grandi città a Theresienstadt. Un campo di raccolta sul quale lo stesso Eichmann e Hans Günther – capo dell’Ufficio Centrale per l’Emigrazione degli Ebrei a Praga – avevano diretta supervisione. Non mancò, nell’era successiva dello scaricabarile, l’irresponsabile, codarda e vigliacca tendenza a dare la colpa ai superiori (nel caso di Eichmann, al noto processo di Gerusalemme, nei confronti di Heinrich Himmler). A farla da padrone a Theresienstadt, Siegfried Seidl; il primo dei tre comandanti delle SS nel campo: un piccolo gerarchetto sconosciuto, posto al vertice del sistema concentrazionario di Terezin per la sua “egregia” opera di previa deportazione di ebrei, polacchi e sloveni verso Nord.
Nelle terre ceche molti sono periti sotto il tacco nazista: secondo i dati del museo di Terezín sono 74mila gli ebrei uccisi; circa ventimila i prigionieri nei campi cechi, seimila le vittime eseguite dopo l’ordine delle sedicenti corti di giustizia del Reich; dai sei ai settemila i Rom e Sinti assassinati dal regime. Più di duemilaseicento gli uomini e le donne che sono morti nella fortezza di Theresienstadt, tra gli stenti, le pessime condizioni igieniche, il terrificante pensiero di essere stati abbandonati anche da Dio.
Amedeo Gasparini