Sono sotto attacco da oramai quasi tre secoli, quelle macchine artificiali – efficace creazione del genio umano – che fondono meccanica con elettricità, sensori e marchingegni in un armonioso sferragliare di chip che compiono azioni intelligenti. L’avversione verso quell’approccio che sostituisce la manovalanza umana all’azione macchinosa di un robot è sempre stata sotto attacco e oggi ha un nome ben preciso: intelligenza artificiale, abile sostitutrice di molte delle nostre attività, semplificatrice di vita. L’antenato del suo massimo esempio – il robot – era il telaio meccanico, strumento che quando si affermo nelle società occidentali ha “goduto” delle devastanti attenzioni operaistiche del Luddismo, da Ned Ludd, che, secondo la leggenda che va avanti da trecento anni, avrebbe distrutto negli anni settanta del Settecento proprio un telaio in segno di protesta. «A cosa servo io, se oramai questa macchina fa il mio lavoro?» Dev’essere questo il pensiero che ha animato le aspre contese sull’utilità o meno delle nuove tecnologie che via a via si sono affermate nella Storia e hanno scandito le rispettive epoche. Ma Se Ludd – operaio molto probabilmente fantomatico – non è mai esistito, robot, droni, macchine intelligenti, non solo mettono a rischio diversi milioni di posti di lavoro, ma sono tra noi e stanno entrando – più o meno lentamente – nelle nostre vite. Ci fanno la spesa, ci aiutano con l’ordinazione al ristorante, caricano merci, ci ascoltano a comando in casa. Semplicemente, “fanno cose”; suppliscono alla nostra pigrizia momentanea e sono (e saranno sempre di più) la più idonea soluzione per un mondo migliore (ottenibile solo quando efficacia si fonderà con efficienza). E quindi, tra critiche e stereotipi sull’intelligenza artificiale (AI), tra l’elogio e la lode della medesima, un polo dinamico, vivo e creativo – giovane, in fin dei conti – come quello dell’Università della Svizzera Italiana, ha ospitato ieri sera l’incontro L’intelligenza artificiale, le professioni di domani e il mondo che verrà, organizzata dal Circolo Liberale di Cultura Carlo Battaglini.
L’introduzione alla serata di Morena Ferrari Gamba, Presidente del Circolo, è chiara: «Cosa c’entra la politica con la tecnologia?» La politica è – o dovrebbe essere, visti i nostri tempi – cultura. «Cultura e tecnologia vanno sempre assieme.» E «noi cittadini siamo su treni ad alta velocità, spettatori passivi» di un mondo che corre e gira sempre più vorticosamente. Attorno a e dentro di noi. «La realtà tecnologica non è stata a guardare» ed oggi, con l’intelligenza artificiale, si possono governare diversi sistemi complessi; «dai semafori, agli ospedali, dai cellulari alle automobili. E anche la finanzia.» Ma anche l’architettura, la comunicazione, le decisioni, l’interazione: tutto regolato dalla più o meno da un algoritmo. Inoltre, “l’industria 4.0” (molti ricordano la 2.0, nessuno ricorda la 3.0, pochi sono pronti per la 4.0) «è un termine che sta entrando in un linguaggio comune» e – anche da spettatori passivi – non possiamo non esserne investiti: importanti sono gli interrogativi che dobbiamo porci nel nostro rapporto con le macchine complesse; rapporto che genera l’altrettanto complesso dialogo al confine con etica, diritti dell’uomo e scienza.
Paolo Attivissimo, moderatore della serata – giornalista, conduttore radiofonico, acchiappa-bufale, pioniere del web e delle sue meravigliose potenzialità – sottolinea la pervasività dell’intelligenza artificiale: «è tra noi, l’abbiamo nelle nostre tasche.» Già: cos’è quel black mirror – maelstrom del tutto, enciclopedia surrogata, assistente comunicativo, humor detector – se non simbolo del futuro rappresentato anche dall’AI? E a proposito di etica: «come vogliono usarlo? Come un futuro schiavo?» (anche se, vedendo certe tendenze – specialmente tra le generazioni più fresche – sembrerebbe il contrario). «Oppure degli alleati? Degli amici? Degli emissari che andranno in luoghi dove non possiamo andare?» Il futuro è aperto: ai possessori di più o meno grande intelligenza artificiale – noi tutti – Attivissimo ricorda – giusto per riprendere un’immagine settecentesca – l’epoca in cui arrivò l’uso massiccio del vapore per creare movimento, ergo mobilità, ergo velocità. «Improvvisamente era finita un’epoca.» I paradigmi a cui tanti erano abituati sono saltati.
Sempre per rimanere al passato, direttamente dal «club dei matematici» (come l’ha definito lui stesso), il Rettore dell’Università della Svizzera Italiana Boas Erez, da buon matematico appunto, guida il pubblico al ricordo di due nomi importanti e a cui tutti – tutti inconsciamente – dobbiamo molto: Alan Turing (padre – anche se morto a quarantuno anni – dell’intelligenza artificiale, dell’informatica, della scienza informatica e della celebre macchina che porta il suo cognome) e Norbert Wiener (statistico americano, inventore del calcolo delle probabilità e dai cui studi è nata la cibernetica). Giganti della modernità, “macchine umane da futuro” che ad un certo punto si sono messi in testa di «calcolare sui pensieri.» Difatti, «la loro idea era di imitare i processi mentali con un calcolo. Volevano dimostrare che si potesse controllare la verità» (auguri!). Con un salto avanti sino ai giorni nostri, Erez racconta dei «tre campi che si compenetrano: la robotica, l’apprendimento delle macchine e l’intelligenza artificiale.» I tre issues sul tavolo di scienza e società. Secondo il Rettore dell’USI, «con l’apprendimento si crea qualcosa, mentre col ragionamento si approfondisce quel qualcosa.» E in tutto questo, l’elemento dei dati è molto importante: «l’accumulo di essi cambia il modo di fare scienza. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (capire cos’è una macchina intelligente), l’intelligenza artificiale “ristretta” (le macchine che sanno fare poche cose) e il concentrarsi sull’universo di dati sono due elementi fondamentali.» Va detto però che «l’IA non sostituirà i medici»: la macchina spesso non “fa meglio” rispetto all’uomo (apprendista non può superare il maestro in questo caso), ma la soluzione potrebbe essere il compromesso del «meglio assieme»: uomini e macchine; un passo verso l’interdisciplinarità e, visto che la serata impone inevitabilmente inglesismi vari, il multitasking.
Multitasking che Mauro Dell’Ambrogio, secondo relatore-ospite della serata, conosce molto bene, dal momento che è stato Segretario di Stato per la formazione, la ricerca, l’innovazione (in pensione da novembre di quest’anno). «Due anni fa il Consiglio Federale pubblicò un rapporto di digitalizzazione e numerizzazione.» Un passo importante per il Canton Ticino, che conosce la realtà dell’intelligenza artificiale dai primi anni Ottanta ed è “isola montagnosa” di attrazione di capitali e talenti (umani, non robotici). «La rivoluzione che si sta vivendo è sotto gli occhi di tutti» afferma Dell’Ambrogio, «Booking e Uber sono gli esempi immediati che conosciamo tutti.» Sono «un nuovo modo di fare business.» Il punto saliente evocato dall’ex Segretario di Stato è quello sulla regolamentazione dell’AI da parte dell’Erario. «Chi è indipendente e chi è dipendente? Come si incassano le imposte?» I nuovi modelli di business e il futuro spietato che come un’onda travolge gli incauti turisti sulla spiaggia impongono nuove riflessioni, nuovi scenari e nuove situazioni completamente inedite ai nostri occhi e orecchie. «Importante infine, è la protezione dei dati personali», argomento principe dei tecnofobici. «Personalmente» continua Dell’Ambrogio, «mi sono occupato molto di rapporto di ricerca e innovazione.» Negli anni, è andata ad affermarsi via via una sorta di “autopromozione” dell’intelligenza federale «da parte dei singoli: l’innovazione non è mai stata gestita a livello politico o federale.» Sono le università, i centri di calcolo, i politecnici che autonomamente si accendono e colgono al volo «l’opportunità dell’innovazione, conciliando allo stesso momento la necessità di adattarsi e quella di essere flessibili.»
A concludere il simposio luganese, l’ospite di punta della serata – non me ne vogliano gli altrettanti stimabili relatori – Roberto Cingolani, Direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (organizzazione di spicco del Belpaese, che quando s’impegna seriamente, crea scientemente, sperimenta responsabilmente, produce massivamente è assolutamente imbattibile). Il terzo relatore spiazza sin da subito la numerosa platea con una domanda apparentemente banale: «Cos’è l’intelligenza?» Una macchina («formata da oltre quaranta atomi») è – o può essere – più intelligente dell’uomo («elementare costituzione di idrogeno, azoto, fosforo, ossigeno, carbonio»)? Come fa una macchina col pilota automatico a decidere, in situazioni avverse, se sacrificare i passeggeri o i pedoni? «Semplice: fa un calcolo.» La macchina è amorfa, inflessibile, impietosa. Malvagia, se vogliamo, nella sua grigia burocraticità: l’etica è totalmente assente dalle sue macchinazioni. Opta per il male minore, risultato di un calcolo istantaneo. E poi arriva lui («uno dei quaranta esemplari sulla Terra»): il piccolo Robot iCub. Un simpatico bambinone (alto come un dodicenne) che esegue i comandi del suo padrone (non possiamo dire “padre”, visto che la sua genitorialità – a differenza dei bambini – si estende a circa 400 scienziati e inventori, che hanno soffiato all’interno dei marchingegni ferrici e silicici una parvenza di umanità). «iCub ci mette due ore a fare quattro sciocchezze»: secondo Cingolani, non è possibile che le nostre creazioni possano controllarci. Siamo noi umani gli autori dell’intelligenza artificiale e perciò siamo noi a controllarla (e qui casca l’asino dell’apprendista stregone). «Noi umani siamo tutti diversi», spiega Cingolani. «E meno male che ci sono gli stupidi, altrimenti non ci sarebbe biodiversità», bellissima peculiarità del mondo umano. Decisamente confortanti le parole di direttore dell’IIT: «Ci stanno prendendo in giro sul fatto che le macchine ci sostituiranno» (alla faccia di Ludd). «Certo, sanno fare alcune cose meglio di noi, questo è vero, ma tutto il resto no! Ottimizzano la manifattura, ma non ci possono sostituire. Il pericolo non è l’intelligenza artificiale, ma chi le governa!» Ed infine la pietra tombale per provare la certezza della sua tesi: «Come umani abbiamo il concetto di sopravvivenza (devo mangiare) e continuazione della specie (che ci fanno diventare aggressivi). Il robot, se viene spento, non muore: non ha problemi di fame o di continuazione della specie. L’intelligenza artificiale non può produrre atteggiamenti tipici dell’umano perché gli mancano quei due presupposti umani.»
Il messaggio è chiaro: ad essere imperfette non sono le macchine. Siamo noi umani, creatori e regolatori di macchine più o meno potenti ed in futuro più o meno soverchianti. Investire sugli umani quindi, non sulle macchine: l’intelligenza artificiale ci aiuta, ma non deve – e non può – sostituirci. Vediamo di tenerci stretto quel bene che nessun drone o braccio bionico ci potrà mai portar via: la libertà. Libertà di vita, di scelta, di costume, di azione. Per il resto, buona fortuna con le “macchine intelligenti”.
Amedeo Gasparini