Babel

Tra lingua e traduzioni, la star Jullien

 

La Babele è diaspora, crocevia di lingue, nel viaggio attraverso il mondo c’è il rischio di perdere i contatti con le proprie origini e insieme il desiderio di recuperarli… è stato uno dei filoni emersi ieri, nell’ultima giornata della rassegna. Come per l’incontro, un po’ spaesato a dir la verità, del mattino. Élisa Shua Dusapin (Inverno a Sokcho, edizioni Ibis), padre francese e madre sudcoreana, cresciuta a Parigi, Seul e Porrentruy, fa comunicare i suoi personaggi, più che con il linguaggio (data la difficoltà di comprendersi tra coreano, giapponese, inglese), attraverso il corpo, gli sguardi, i silenzi; Stella N’Djoku (che è nata a Locarno), del 2019 è la pubblicazione Il tempo di una cometa (v. “Non posso contenere ciò che mi contiene”: la poesia di Stella N’Djoku), cerca di recuperare l’idioma africano almeno attraverso le canzoni; il poeta Vanni Bianconi, spiega il suo passaggio alla prosa (Tarmacadam. Ventuno incantesimi, Nottetempo), affermando che, dopo quindici anni di Londra, gli mancava l’immersione nella quotidianità orale dell’italiano, ma ogni racconto del suo libro, prende spunto da un luogo e da una parola differenti; Pascal Janovjak, nato a Basilea da madre francese e padre slovacco, vive in Italia (Lo zoo di Roma, Casagrande, v. il fenicottero che troneggia ancora sulla nostra pagina), per i suoi figli è un insegnante di francese, lo slovacco lo parla solo con il padre, una lingua di lusso per due persone. Poi il discorso è scivolato sul tradimento dell’identità, il mascheramento, il nascondere il reale, prodotti dall’attribuire un nome o una definizione (che si tratti di animali, natura oppure di condizioni di vita…) e naturalmente alle problematiche del passaggio da una lingua all’altra.

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