L’unico modo per rispettare il passato è quello di essere autenticamente moderni (Carlo Scarpa)
Ospite della dodicesima edizione di Zelbio Cult, l’architetto svizzero Mario Botta ha tenuto sabato 3 agosto un’appassionante conferenza sui tesori di arte romanica presenti in Ticino, svelandoci i retroscena di alcuni dei suoi progetti, e chiarendo inoltre l’importante funzione etico-sociale che attribuisce all’architettura. L’incontro, svoltosi nel piccolo paesino comasco di Zelbio, ha visto la presenza di numerosissimi spettatori, curiosi di assistere all’intervento di uno dei più noti e influenti architetti.
Ad intervistarlo vi era Armando Besio (responsabile delle pagine culturali di Repubblica, nonché ideatore e organizzatore di Zelbio Cult), il quale ha sapientemente presentato Mario Botta, ricordando le figure che lo hanno influenzato (Le Corbusier, Carlo Scarpa e Louis Kahn) e gli edifici da lui realizzati in tutto il mondo (Italia, Svizzera, Francia, Germania, Paesi Bassi, Grecia, Israele, America, India, Cina, Giappone, Corea del Sud), dai quali risulta evidente la varietà delle committenze e delle tipologie di costruzioni da lui compiuti (cattedrali, chiese, sinagoghe, moschee, musei, biblioteche, teatri, casinò, terme, campus universitari). Definendolo come l’ultimo discendente di una tradizione millenaria, la scuola ticinese di architettura, Besio ha chiaramente individuato lo stile di Mario Botta, che coniuga «una sincera modernità ma anche un legame forte con la tradizione». Cercando sempre un rapporto con il contesto in cui si inseriscono i propri edifici, caratteristiche delle sue opere sono la simmetria, l’ordine, l’essenzialità del disegno e dei materiali (tipico l’utilizzo del mattone e della pietra). Sintetizzando, le opere di Botta incarnano quelle che Vitruvio individuò come le tre doti dell’architettura: firmitas (solidità), utilitas (utilità) e venustas (bellezza), dove quest’ultima, ha precisato sempre Besio, è sempre in secondo piano rispetto alla funzione etica.
Il titolo dato alla conferenza, Angeli, arcangeli e demoni del Ticino, è tratto dalla prefazione che lo stesso Botta ha fatto per il volume Il Sacro del Ticino. Itinerari di architettura e d’arte (Skira, 2018). Il suo intervento ha preso l’avvio da due itinerari lì raccontati, soffermandosi sulla Chiesa di San Carlo a Negrentino (Valle di Blenio) e sulla Chiesa di San Nicolao a Giornico (Valle Leventina).
«L’architettura è una forma espressiva di una storia, di un passato, che è parte della storia civile», ha premesso il noto architetto, e non sono da meno i due mirabili esempi di architettura romanica menzionati. Nati come testimonianza di fede, pietas cristiana e collettiva, sono anche elementi che ci parlano della fatica fatta per realizzare quegli stessi edifici, costruiti “pietra su pietra”, trasportata e raccolta con sforzo umano.
Quando vediamo queste opere, e in questo caso queste chiese incastonate in un paesaggio naturale, troviamo la bellezza come una cosa spontanea. Tuttavia, avverte Botta, «La bellezza è una qualità innata ma quando la si trasforma in forme geometriche deve essere anche sofferta, deve passare attraverso una fatica».
Questo aspetto è particolarmente evidente osservando una semplice feritoia della Chiesa di San Carlo: per creare un piccolo sprazzo di luce devono essere rispettati una serie di accorgimenti costruttivi. Mario Botta ha poi fatto notare un aspetto minimo ma rilevatore del pensiero che ha sotteso la costruzione stessa: la chiesa sita in Valle di Blenio si appoggia a una parte della roccia della montagna che fuoriesce del prato; questo dettaglio, così come l’inclinazione del tetto che riprende il pendio della valle, rivelano l’attenzione, da parte dei costruttori, di rimanere fedeli al territorio.
La Chiesa di San Carlo e quella di San Nicolao sono inoltre impreziosite dagli affreschi romanici, e sono presenti elementi tipici del gusto ispirato dai bestiari medievali; in particolare, nella seconda, trovano posto nella muratura robuste sculture in pietra di forma zoomorfa, tipiche dell’architettura romanica.
Il più grande studioso di quello stile, ha commentato Botta, è stato Don Angelico Surchamp, che ha dedicato all’architettura romanica una cinquantina di volumi, manifestando così di intuire la grande forza di questa arte che, ha precisato, «è la prima forma di globalizzazione», in quanto si sviluppa in diversi luoghi, come Scozia, Sicilia, Spagna e Portogallo. È una forma espressiva di una cultura popolare che è durata nel tempo, una forza comunitaria estremamente compatta, che si serviva di forme e materiali semplici, perlopiù in pietra, inserendosi perfettamente nel territorio.
Il noto architetto svizzero è poi passato ad esaminare due edifici da lui ideati e progettati, non prima di aver sottolineato che «L’architettura è tutto. È una forma che deve recepire la cultura del proprio tempo, reinterpretarla. Perché una cappella oggi dovrebbe essere diversa da quella fatta 2000 o 20 anni fa? Perché interpreta il nostro essere, il nostro modo di essere uomini sulla terra. […] È sempre lo specchio, a volte impietoso, della società».
Il contesto in cui nascono la Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno e la Cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro sono davvero peculiari: la prima è nata dall’esigenza di ricostruire una chiesa che era stata distrutta da una disgrazia naturale, la seconda dalla volontà di un uomo di commemorare la defunta moglie.
In particolare, a proposito della costruzione della chiesa, Botta ha rilevato di aver voluto sì dare una nuova forma (circolare) e una nuova consistenza all’edificio (più robusta, di modo da fronteggiare eventuali calamità) ma di aver deciso di mantenere il pozzo delle ossa (l’unica cosa che si salvò dalla valanga furono infatti i morti che giacevano sotto la cappella) perché, ha sottolineato, «siamo padroni di tutto, ma non della memoria storica».
Per quanto riguarda invece la Cappella sul Monte Tamaro, essa è stata il frutto di una collaborazione particolare: un architetto (naturalmente, Mario Botta), un artista (Enzo Cucchi) e un religioso-critico letterario (Giovanni Pozzi).
L’aspetto più umano che sottende la costruzione, realizzata in porfido ed ubicata al limitare di un pendio, oltre il quale si apre una veduta panoramica, è il desiderio del committente, l’imprenditore Egidio Cattaneo, di commemorare la moglie Mariangela.
Questo desiderio, tenuto nascosto sino alla fine dell’effettiva realizzazione della cappella, è sfociato così in uno spazio accessibile anche alla collettività, che può qui pregare, meditare, o semplicemente godersi il panorama offerto.
Il sogno nel cassetto di Mario Botta? A rilevarcelo è stato lo stesso, incalzato da Armando Besio: realizzare un monastero, dove punterebbe, come fedeltà al luogo e alla vocazione dei monaci, all’eliminazione delle gerarchie degli spazi serventi e degli spazi serviti, e all’esaltazione dei valori dello spirito, e quindi la gioia di vivere, la preghiera, ed il silenzio.
Lucrezia Greppi