Nel Settecento la “bevanda del diavolo” fu la gran moda del momento in fatto di bevande, a lei vennero intitolati i locali in cui gustarla, luoghi di ritrovo per intellettuali, uomini di cultura, rivoluzionari, incontri galanti, cuore pulsante d’esibizione per l’ascesa borghese, venne intitolato a lei anche il celebre periodico illuminista di Verri. E fu fonte d’ispirazione per gli artisti anche del teatro come dimostra la celebre commedia di Carlo Goldoni.
Abbiamo ritrovato in scena, dopo un lungo percorso, ad un anno esatto dal suo debutto mancato (9 novembre 2020), ieri al LAC di Lugano, La bottega del caffè nell’adattamento di Emanuele Aldrovandi e la regia di Igor Horvat (v. intervista ne L’Osservatore n.45/2021). Un telo di plastica avvolge all’inizio la scenografia, come a voler ricoprire, per poi togliere, rivelare, quasi scongelare ai nostri occhi quel microcosmo che diventa speculare al mondo, trasportando nell’esercizio pubblico la piazza o il Campiello di un tempo delle chiacchiere e dei pettegolezzi, ora degli affari, imbrogli e mercanteggi, dove “tutti cercano di fare quello che fanno gli altri”. Lo evoca una struttura aperta a due piani, sul praticabile in alto si affacciano le donne come dalle finestre delle loro case. Mentre drammaturgia e costumi si pongono in bilico tra le epoche.
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