Suscita emozioni forti “Il fu Mattia Pascal” nell’adattamento di Daniele Pecci, in questi giorni al Teatro di Locarno. C’è qualcosa di irrimediabilmente antico, un sentimento che riemerge ad ogni battuta, una domanda martellante: quella di un individuo confrontato con la morte, la sua morte. E sebbene la trama del libro di Pirandello sia notissima, lo spettacolo di Pecci riesce a riempire questa domanda di nuove e inaspettate sfumature, che si insinuano lì dove inizia la vita dello spirito. Si scherza, si ride ma bastano le note melanconiche di sottofondo, che si ripetono incalzanti per tutta la pièce a dirci che la questione è di una serietà ineludibile: si tratta di capire fino a che punto siamo disposti ad investire nella costruzione della nostra identità e soprattutto, fino a che punto essa dipende da noi. Siamo davvero un atomo senza destino, come vorrebbe l’immagine evocata all’inizio dello spettacolo, o la luna e le stelle splendono proprio per noi? Sospeso in questo dubbio amletico, divertito e disperato al contempo a causa della sua condizione, vediamo un Daniele Pecci nelle veci di Mattia Pascal catalizzare le attenzioni su di sé, non tanto per l’indubbia bravura dell’interprete, quanto per le perplessità che si porta appresso, un po’ fardello e un po’ causa del suo fascino, che attrae inevitabilmente le donne della scena. Come ci si libera da tutto questo? Come “sfondare la ragnatela” in cui don Eligio vede inevitabilmente intrappolato il suo protetto, alle prese con il racconto di una storia – la sua – inverosimile? La soluzione sta nell’esorcizzarla mettendola su carta o nel viverla fino in fondo, anche con le sue assurdità?
Mentre lo spettatore, assieme al protagonista, è alle prese con queste domande, i personaggi incalzano per entrare sulla scena, tutti attori che vogliono avere la loro parte in questa tragica vicenda. Concretamente, mentre Mattia Pascal cerca di capire come si possa “reinventare la vita di un uomo”, ciascuno di essi trova, in mezzo a questo sogno a occhi aperti, il suo posto; inconsapevolmente, ogni personaggio accetta di essere parte di questa storia inverosimile, rafforzando e condividendone anche la lezione: forse, non si può davvero comprendere la vita se non intendiamo il senso della morte. O meglio: il venir meno di ogni cosa ci rivela la pienezza per cui siamo fatti. Il confine che fa la differenza? Magari proprio quello suggerito a un certo punto da uno dei personaggi, il più meditabondo, Anselmo Paleari, padrone della casa dove Mattia trova rifugio dopo il suo vagabondare: un “buco nel cielo di carta”, che nella tragedia shakespeariana permetteva alla divinità di manifestarsi, a noi di trovare una porta di accesso ad un senso ulteriore. Di cui, storie come quelle del fu Mattia Pascal, ce ne lasciano intuire – ogni volta che vengono narrate – la profonda necessità.
Laura Quadri