Immenso e conturbante, lo spettacolo (acclamatissimo in tutto il mondo) del regista cinematografico (e si vede) e teatrale ungherese Kornél Mundruczó rappresenta l’apice della sua ricerca artistica, la sua opera più significativa. La prima mezz’ora di spettacolo è consacrata a una proiezione: spiamo lo scorcio di un interno in cui vive una donna di mezza età, una signora esausta, distrutta dalla vita. Intuiamo di essere fuori Budapest e la ripresa video casalinga ci permette appena di tratteggiare con l’immaginazione l’esempio di catapecchia cui vengono relegati i Rom: una zona di confine, ai margini della capitale, un luogo cui non sembrano avvicinarsi nemmeno le ambulanze, nemmeno per casi urgenti (“Se rispondessimo a tutte le chiamate provenienti dai Rom, la popolazione ungherese si estinguerebbe rapidamente” è una delle frasi più destabilizzanti dello spettacolo). Il lungo filmato propone il tentativo di difendersi messo in atto dalla donna quando (ennesimamente) viene messa alle strette dalla vita, in questo caso da un malvivente travestito da ufficiale giudiziario. Deve andarsene da lì, la donna, perché da anni non paga le bollette e merita lo sfratto (anche se vedova, anche se non possiede nulla). Ma lei non se ne vuole andare e parte con il logorante, violento racconto della sua vita, fra morti, stenti, altri morti, lutti di ogni genere e il rapido frantumarsi di qualsiasi diritto civile. Ma ecco irrompere il teatro, e proprio con una rappresentazione iperrealista Imitation of life indaga minuziosamente le motivazioni e i paradossi di una società (ungherese, ma il modello appare estendibile ovunque) in cui dilagano violenza e discriminazione. Lo fa attraverso una sorprendente proposta scenica che inizialmente relega lateralmente violenza e provocazione per approfondire lo sguardo su un minuscolo scorcio, intimo e silenzioso, del destino di questi pochi individui. Il figlio della donna si vergogna del colore della sua pelle, così diverso dagli altri, e nega in continuazione di essere zingaro. E allora – ancora ragazzino – fugge, scappa in città e si stabilisce in un albergo dove si prostituirà fino a quando la madre andrà a riacciuffarlo comunicandogli la morte del padre. La disistima verso se stesso non farà che foraggiare un odio dilagante, che nel ragazzo culmina con un’azione violenta (e paradossalmente autodistruttiva, essendo questa indirizzata verso un membro della propria, pur rinnegata, comunità) e certamente disperata. Deceduta la madre del ragazzo, l’appartamento verrà affittato a una donna single in minigonna e calze di nylon; altra figura affascinante perché ci si svela talmente umana nelle sue pene d’amore disastrosamente amministrate, o nel suo goffo, spericolato tentativo di prendersi cura di suo figlio abulico, nel suo tirare fuori le unghie col criminale da strapazzo che le fa firmare un contratto impossibile. Sembra da non credere, può apparire fuori posto, ma a tratti si ride in questo spettacolo antropomorfo dall’andatura lenta, fisiologica. Ma il “bello” sta qui: dopo nemmeno un’ora di spettacolo accade qualcosa di sconvolgente, accade davanti ai nostri occhi, accade e nulla possiamo di fronte a tutta quella “roba”, e nemmeno possiamo arrestare il suo lento corso. Una bellissima metafora, un’intuizione geniale che Mundruczó sa sfruttare con decisione. E che non saremo certo noi a svelarvi, negandovi l’opportunità di scoprire in prima persona di che si tratta durante la prossima replica dello spettacolo (che continua, e continuerà a girare il mondo). Un atto politico e poetico Imitation of life, un gesto sensibile e insieme violentissimo perché violenta è la natura, soprattutto la natura umana. Da sempre. Nessuna eccezione.
Margherita Coldesina