Scrive, racconta di altri e si trova a parlare di sé. Maria Cuffaro è così, pronta sempre a prestare la voce a chi l’ha persa o, forse, non l’ha mai avuta, e al contempo affascinata da quanto questa voce “di altri” abbia cambiato e continui a cambiare la sua vita, che di reportage in reportage si arricchisce di qualche frammento di realtà in più. In Kajal – La vita degli altri e la mia ritroviamo la grande Storia – come la guerra e l’invasione americana dell’Iraq tra il 2003 e il 2005 – raccontata attraverso gli incontri con vittime e carnefici. Due categorie – mette subito in chiaro la Cuffaro, al pubblico al S. Materno di Ascona, dove è intervenuta ieri sera, in un teatro pieno – che in guerra possono facilmente capovolgersi. “A volte puoi scoprire che la vittima si è trasformata in carnefice e viceversa. Sono le sorprese che la guerra riserva, la complessità, il paradosso del reale”. Una questione difficile per chi, come un giornalista, si è da subito posto l’obiettivo di raccontare nient’altro che la Verità. Ma la Verità non è una cosa compatta; è sfaccettata. Per questo “il primo compito del giornalista, piuttosto, è quello della credibilità, nella consapevolezza che esistono vari punti di vista sulla stessa cosa”. “Oggigiorno tendiamo a semplificare le cose, tendiamo verso una verità semplice; siamo vittime di ciò che vogliamo raccontarci”. Il mestiere del giornalista, in questo senso, “è bellissimo, ma spietato, ti consuma; è un grande privilegio, perché ti dà l’occasione di essere testimone di tante cose, ma poi hai la responsabilità di quanto osservi”. E così Cuffaro ricorda quel ragazzino, che a Baghdad voleva farlo lui lo scoop, raccogliendo resti umani e pezzi di lamiera dopo l’esplosione della Croce Rossa. “Perché per la gente del posto, soprattutto per i bambini del posto, la guerra è la normalità. Imparano a conviverci un po’ come qui in Svizzera si impara a essere sempre puntuali. Con la guerra impari che l’unica certezza è il tuo udito: finché riesci a sentire i bombardamenti, vuol dire che stanno avvenendo altrove”. Le bombe la Cuffaro, durante il suo periodo a Baghdad, le ricorda bene, soprattutto quando si organizzavano i cosiddetti “bombardamenti umanitari”: prima di far esplodere una bomba vera su una casa, se ne mandava una più piccola e meno distruttiva come avvertimento, così da lasciare agli abitanti della casa il tempo di sgombrare il campo. Cuffaro si è ritrovata spesso ad assistere a questo terribile “gioco”. È il lavoro del giornalista: lasciarsi permeare dalla realtà, anche da questa terribile realtà, per poi essere in grado di raccontarla, trasformando le emozioni in informazione. “Oggi molti giornalisti sono prevedibili, i loro articoli scontati perché non vige più la cultura dell’incontro. I giornalisti sono segregati nelle loro redazioni inaccessibili, aspettando che sia il mondo a venire da loro”, mette in guardia Cuffaro, che indica tutto questo come una sorta di neo-romanticismo: “Proprio come i pittori romantici, questi giornalisti raccontano ciò che essi vogliono che sia, al posto di darsi tempo di raccogliere delle storie”. Un raccogliere che può essere difficoltoso, per i più svariati motivi: “Fare domande ti espone alle risposte e non sempre queste risposte potrebbero contenere quanto speriamo”. E il pensiero corre a quell’uomo, in guerra torturatore seriale, di cui parla anche nel suo libro testimonianza, che appena vedeva accendersi la luce della telecamera trasaliva e non parlava: “Un’intervista durata tre giorni”, ricorda la Cuffaro, “perché la luce della telecamera gli ricordava le torture impartite, che voleva scordare”. “Il giornalista – conclude la Cuffaro, pensando in generale ai suoi tanti incontri – ha nelle sue mani la fiducia delle persone e deve farne buon uso”. Una consapevolezza che la Cuffaro spera di trasmettere alle generazioni più giovani di giornalisti. A questo proposito, dal 2016 conduce, oltre al Tg3 delle 19 su Rai Tre, lo speciale “Il mondo nuovo”, luogo di incontro e testimonianza per giovani reporter e fotografi da tutto il mondo, che quotidianamente rischiano la vita per i loro scatti.
Laura Quadri