Spesso i trattati di pace sono la premessa per una nuova guerra. Il caso più recente e clamoroso di questi è stato quello firmato a Versailles, un secolo fa, il 28 giugno 1919. Il trattato sancì l’armistizio – e non la pace – tra la Germania e gli altri stati europei – fuorché gli altri ex imperi centrali – dopo la vittoria degli Alleati nella Prima Guerra Mondiale ed entrò in vigore il 10 gennaio 1920. Un’Europa che aveva visto sulla sua pelle e civiltà quanto fosse devastante una guerra moderna trascinava quanto rimaneva di se stessa nella maestosa reggia dei monarchi francesi per l’ufficiale e burocratica resa dei conti con gli avversari. Se Versailles è stato il simbolo dell’assolutismo dell’Ancien Régime, la Francia del Nord era diventata il simbolo della lacerante guerra di trincea, a confine con l’allora Impero Germanico – l’ultimo impero centrale che coerentemente chiese l’armistizio –, governato da Guglielmo II. Questi, un Kaiser poco amato dal suo popolo: difatti, fu l’ultimo a regnare nella grande federazione dei piccoli Länder e della grande Prussia.
Negli ultimi mesi della guerra la Germania era rimasta completamente isolata: il morale delle truppe tedesche era esaurito, la popolazione civile era sfinita, le industrie belliche senza più risorse. Lo sgretolamento sociale e il timore di rivoluzioni interne erano concreti. Il fallimento della grande offensiva di Erich Ludendorff nella primavera del 1918 avrebbe dovuto far capire a Berlino che la sconfitta era ormai prossima, ma niente da fare: è a Versailles che sarebbero ricostruita una nuova Europa con i nemici di trincea.
Gli esiti della Prima Guerra Mondiale dimostrano che la Germania fu la grande sconfitta del conflitto. I termini del trattato firmato alla reggia francese furono umilianti per l’Impero Tedesco, che riconsegnò le terre europee invase e cedette le sue scarse conquiste territoriali d’oltre mare: l’odierno Camerun, Togo, Ruanda e l’attuale Namibia, con aggiunta di diversi territori dell’Africa Orientale. Massicce – e di maggiore rilevanza storica per la geopolitica occidentale – le perdite attorno alla casa madre tedesca. Prima di tutto, la spaccatura della Prussia per consentire alla neonata Polonia lo sbocco sul mare nella configurazione geografica del cosiddetto corridoio di Danzica. Una coda di Prussia rimase quindi isolata dal resto della Germania, che tuttavia conservò gran parte della sua integrità territoriale se compariamo la sua situazione geografica con quella post-Seconda Guerra Mondiale. Far perdere alla Germania parte della Posnania e della Slesia in favore della Seconda Repubblica polacca non sembrò abbastanza ai vincitori: una piccola porzione dello Schleswig settentrionale venne data alla Danimarca, mentre l’Alsazia e la Lorena – incarnazione territoriale delle aspre contese franco-prussiane prima e franco-naziste poi – vennero restituite alla Francia, che altro non aspettava se non il ritorno dei preziosi territori perduti a seguito della sconfitta del 1871 e del trattato di Francoforte, firmato Adolphe Thiers e Otto von Bismarck.
Una ridimensione territoriale complessiva del tredici per cento, che certamente non poteva mettere le cose a posto: per assicurarsi l’innocuità dell’ex nemico comune, i vincitori di Versailles imposero alla Germania una grossa limitazione in termini di forze belliche, con l’assoluto divieto dell’uso degli U-boot, i sottomarini all’avanguardia che erano la grande passione di Guglielmo II. Gli “squali d’acciaio” avevano provocato non pochi danni alla flotta britannica prima e a quella americana poi: dall’attacco al Lusitania alle provocazioni nel porto di New York, uno dei pretesti per l’entrata in guerra degli Stati Uniti di Woodrow Wilson nel 1917. Alle restrizioni militari vennero poi aggiunte le spese di guerra, quantificate in miliardi di marchi d’oro, cosa che di lì a poco avrebbe mandato la Germania in uno stato di iperinflazione, con la conseguente impossibilità di pagare il mostruoso debito imposto dalle potenze vincitrici (anche se non fu solo l’inflazione a determinare il malcontento generale nella Repubblica di Weimar). La produzione tedesca venne molto penalizzata dalla sconfitta bellica: dalla sera alla mattina interi arsenali erano stati dichiarati inutili e la riconversione dell’industria tedesca fu macchinosa per diversi anni.
Ma la condizione più dura del trattato per il popolo tedesco non risiedeva tanto nelle mutilazioni territoriali o nelle limitazioni dell’industria bellica oppure nelle ingenti riparazioni da pagare. No: il boccone più amaro da mandare giù – interpretato come una meschina vendetta del popolo francese (pesantemente umiliato a sua volta dalla tragedia di Verdun e affini) – fu l’addebito dell’intera responsabilità del conflitto ai tedeschi. Ebbene, una guerra che era partita dallo sparo di Sarajevo, nel giugno di cinque anni prima per la mano serba di Gavrilo Princip, si concludeva con la punizione esemplare dell’intero popolo germanico. Un errore fatale, da parte delle potenze vincitrici.
Il trattato di Versailles non fu un trattato, ma un diktat: e diversi vincitori, capitanati in Francia da Georges Clemenceau, credevano che le condizioni fossero troppo leggere rispetto a quanto l’oramai ex impero centrale meritasse. Il ruolo dell’Italia e della Gran Bretagna – rappresentati dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, rispettivamente dal Primo Ministro David Lloyd George – fu quasi marginale nella definizione dei trattati. La prima non aveva subito invasioni territoriali (per arrivare in Francia i tedeschi avevano fatto carne di porco in Belgio); la seconda, della Germania era stata alleata e si ritrovò schierata con gli Alleati dopo la consueta mossa all’italiana: il cambio di casacca dopo aver scrutato la sconfitta all’orizzonte. Il Regno d’Italia venne poi beneficiato a livello territoriale dal trattato di Saint-Germain-en-Laye, che smembrò l’altro grande gigante antagonista europeo cioè l’Impero Austro-Ungarico, il 10 settembre del 1919.
L’ultimo articolo del trattato, il numero 440, stabiliva d’imperio che la Germania accettasse e riconoscesse come valide e vincolanti tutti i punti che la riguardavano. Per un paese che neppure fu invitato alla conferenza che decretava il suo taglio della testa de facto fu insopportabilmente umiliante. Nella Storia recente raramente si è visto un trattato che ha punito così tanto un popolo, tale da gettare i semi per una guerra successiva. L’armistizio infatti durò meno di quindici anni: di lì a poco la Germania sarebbe tornata di nuovo e miracolosamente in sella e sul piede di guerra. Mai punire troppo lo sconfitto: è naturale che egli, caduto nella disgrazia delle sue contraddizioni, inefficienze, scarsa capacità di calcolo e previsione, provi sincero rancore per i suoi boia. Dalla parte dei vincitori è doverosa anche la responsabilità di evitare che succedano infausti drammi in futuro, scaturiti dalle pax passate. La retorica dell’odio hitleriano nacque a principio dal sentimento di rivalsa dello Stato-nazione ariano nei confronti dei nemici sovversivi, che a Versailles eccedettero nel posizionare la Germania al patibolo. Saranno poi quelle stesse forze a vincere anche la guerra del ‘39-‘45 – un quinto di secolo dopo –, ma rispetto a quello della Grande Guerra, il prezzo pagato fu infinitamente più alto.
Amedeo Gasparini