Era diventato un personaggio amato e popolare Giuseppe Ungaretti oramai anziano, grazie alle sue apparizioni televisive negli anni ’60, quando commentava qualcosa o recitava i versi dell’Odissea a introduzione dello sceneggiato, in quel modo un po’ gigionesco, declamatorio, ma sempre espressivo, intenso, e con quegli occhi scintillanti e sorridenti.
Giuseppe Ungaretti, nato nel 1888 da genitori lucchesi a Alessandria d’Egitto, è stato il più importante e significativo poeta italiano del Novecento con contatti internazionali, a cominciare dall’amico caro Guillaume Apollinaire sino a Jean Paulhan e Georges Braque. Attraverso le riviste “Mercure de France” e “La voce”, entrò in contatto con le novità culturali europee.
A 50 anni dalla sua scomparsa – all’età di 82 anni la notte del primo giugno 1970, esattamente mezzo secolo fa – ci sarà qualcuno più anziano che ricorda bene quella figura con la barba bianca che sprizzava vitalità. Proprio questo amore per la vita, nella gioia dell’amore come nel dolore per sofferenze e morte, è alla base della sua opera e di quel suo ”mi illumino d’immenso”, i due celebri versi di Mattina del 1917, scritti quindi nelle trincee del Carso, assieme alla sofferte poesie sulla Grande guerra cui partecipò da soldato semplice, raccolte quell’anno in Il porto sepolto e poi, nel 1919, in Allegria di naufragi, volumi diventati classici.
Era amato per i suoi versi innovativi e profondi, in quella assoluta intensità e profondità d’indagine dell’essere, tra tempo e destino (un suo titolo è Il sentimento del tempo), legata a una totale fede nella parola poetica, unica possibilità per salvarsi da “l’universale naufragio”, a versi scarnificati che sono un po’ il dissolvimento della lingua tradizionale della poesia, ma sempre cosciente che “lo sperimentalismo non può essere fine a se stesso”.
Poi, pian piano l’aria cambia, la cultura e la poesia dal secondo dopoguerra diventano più attente a confrontarsi con la storia, il quotidiano e a tendere intimamente alla prosa e il riferimento principe diventa Eugenio Montale, la cui prevalenza viene poi confermata nel 1965 dall’assegnazione del Nobel. E quando fu fatto anche senatore a vita due anni dopo, Ungaretti scrisse sarcastico a un amico, rivendicando la propria vitalità, «Montale senatore e Ungaretti fa l’amore».
Dopo la lunga e intensa unione con la moglie Jeanne, morta nel 1958, negli ultimi anni della sua vita ebbe una relazione con la brasiliana Bruna Bianco, più giovane di 52 anni e, agli amici che un po’ lo prendevano in giro, rispondeva sornione «Non capite perché siete privi di fantasia anche in quello».
Certo contò in parte anche il suo nazionalismo, la sua ammirazione dal 1914 per Mussolini, che per le sue intemperanze e denuncia delle leggi razziali ebbe poi sempre un occhio di riguardo, come l’essere stato lontano dal 1936 al 1942 per aver accettato la cattedra di letteratura italiana all’Università di San Paolo in Brasile, anche se gli servì poi, da Accademico d’Italia, per poter continuare ad insegnare alla Sapienza a Roma sino al 1958.
Il taccuino del vecchio del 1960 è la sua ultima raccolta. Mentre sono tante le edizioni complete della sua opera sino all’uscita, nel 1969, del Meridiano Mondadori, curato da Leone Piccioni, che a oggi a di gran lunga superato la vendita delle centomila copie, per non dire degli Oscar.
Questo anche a certificare che, se è vero che il nume italiano novecentesco è oramai appunto Montale, è pur vero che nelle scuole i più amati dai ragazzi sono i versi di Ungaretti, con la loro forza modernissima e la capacità di parlare di sentimenti profondi ed eterni, con i quali i giovani si trovano a confrontarsi crescendo. I suoi manoscritti, appunti, epistolari e documenti sono oggi raccolti nel fondo Giuseppe Ungaretti, conservato presso l’Archivio contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux a Firenze. (Fonte ANSA).