Novità editoriale

“Viceversa Letteratura”, racconto in anteprima di Michel Layaz

Lo scrittore svizzero Michel Layaz. © Michel Bührer

Sabato 20 maggio (ore 17) alle Giornate letterarie di Soletta sarà presentato il nuovo numero della rivista Viceversa Letteratura, intitolato Per ripicca. Il numero raccoglie scritti e traduzioni inedite di autori svizzeri e stranieri: la poetessa ucraina Tanja Maljartschuk, le scrittrici ticinesi Anna Ruchat e Laura Di Corcia, e poi Michel Layaz, Matthias Zschokke, Fanny Desarzens, Dorothee Elmiger… I testi sono accompagnati dalle illustrazioni di Simone F. Baumann.

Per gentile concessione delle Edizioni Casagrande pubblichiamo il racconto del romando Michel Layaz. Nato a Friburgo nel 1963, ha studiato lettere all’Università di Losanna. Ha scritto il suo primo romanzo, Quartier Terre (1993), dopo un viaggio di sei mesi attorno al Mediterraneo. Ci-gisent (1998), vincitore del Premio Edouard Rod, è stato scritto durante un soggiorno all’Istituto svizzero di Roma. Con Les Larmes de ma mère (2003) ha ricevuto il Premio Dentan e il Premio degli ascoltatori della Radio suisse romande 2004. Lo stesso anno ha ricevuto un Premio culturale del canton Vaud. Con Louis Soutter, probablement (2016) ha vinto un Premio svizzero di letteratura 2017, il Premio Bibliomedia e il Premio Régis de Courten, mentre con Sans Silke (2019) ha ottenuto il Premio Rambert. Insegna attualmente all’Istituto letterario svizzero di Bienne e alla EPCL (École professionnelle commerciale de Lausanne).

Constance 

Michel Layaz

Si sente addosso il respiro delle macchine che avanzano lentissime, strette le une dietro le altre, quattro file compatte, due in un senso, due nell’altro. Attraversare qui sarebbe folle. Quando guarda l’interno delle automobili, la constatazione è quasi sempre la stessa: una macchina uguale una persona uguale un uomo.

Di che deprimersi.

La notte sognare gole tagliate.

Cinquanta metri più in là hanno costruito la passerella. Interamente di metallo. Il giorno dell’inaugurazione, gli abitanti dei palazzi sono venuti a bere e a mangiare panini-sorpresa gratis. Percorrevano la passerella, avanti e indietro, si fermavano qui e là, non a lungo, si appoggiavano alla ringhiera e dicevano ad alta voce: È meglio così.

 

C’è il rumore dei motori.

C’è quello dei clacson.

Constance china la testa. Non sente più nulla. Si dondola in avanti, indietro, il peso sui talloni, poi il peso sulle dita dei piedi. Fa questo movimento elastico e regolare, come in equilibrio in punta a un trampolino.

Nelle pieghe zuppe d’acqua e fango delle sue espadrillas si intravede una specie di schiuma. Forse avrebbe dovuto camminare sul marciapiede. Come al solito. Non tagliare per il terreno incolto. Constance muove le dita dei piedi, e la tela delle espadrillas si gonfia un po’, si solleva e prende vita.

Dall’altra parte della strada, con questa bruma grigia e nera tutt’intorno, si direbbe che i palazzi siano meno pesanti. Non li vede più. Ha gli occhi fissi a terra. Quando si mette sulla punta dei piedi, basterebbe un nonnulla perché il suo corpo si sbilanci e cada sulla strada.

In uno dei palazzi di fronte, è lì che abita, in quel blocco incrinato di cui una delle finestre è la finestra di camera sua, un punto familiare in mezzo alle colature che imbrattano la facciata. Se alzasse la testa potrebbe dirsi: quella lassù è la mia camera, e forse le farebbe bene.

 

Il verde delle espadrillas è scomparso. Le stringhe hanno virato al marrone, un marrone giallognolo. Quando poco prima il professor Cornaz le ha parlato, le sue stringhe erano ancora bianche. Il professor Cornaz ha una voce per niente minacciosa, crede alle sventure che cambiano segno e alle parole che salvano la vita.

Constance ha consegnato il compito: un foglio bianco.

Centodieci minuti per niente.

Il titolo del tema suonava come un regalo: Sono già quattro anni e tre giorni che siamo qui… Sul foglio di brutta lei ha disegnato dei cerchi e delle spirali, davanti e dietro, in blu, rosso e verde. Guardava l’ora sul telefono, tratteneva il fiato il più a lungo possibile. Vedeva i suoi compagni, concentrati, addirittura ispirati. Il professor Cornaz scriveva seduto in cattedra. Ogni volta che Constance espirava era passato circa un minuto e trenta, poco di più o poco di meno. Si diceva che sarebbe stato divertente imbottigliare il tempo, vendere le ore perse a chi non ne ha. Consegnando il compito ha guardato in faccia il professore, senza un’ombra di sfida o di scuse, senza cercare di nascondere le apparenze.

Constance se ne frega di piacere o non piacere, ha questa libertà.

Con la lentezza che a volte la distingue ha messo via i libri nella cartella. Quando il professor Cornaz le si è avvicinato, gli altri allievi stavano già correndo giù dalle scale. Gliene voleva: per il suo aiuto, per la sua gentilezza, perché cercava di capire. Lui si preoccupava. Un cattivo voto sarebbe stato un guaio. Per valutare un lavoro, aveva bisogno di un minimo. Chi non ha delle cose da raccontare, a diciott’anni? Si girava e rigirava il foglio tra le mani. Oppure inventate, diceva. Ingegnatevi. Rubate un’idea qui o là.

Un peso gravava sulle palpebre di Constance. A un tratto ha visto il bel colore blu degli iris che orlavano l’orto dei suoi nonni. Avrebbe voluto godersi il ricordo degli iris, stendersi nell’erba, con la schiena e i piedi nudi, strappare alla natura un paio di fiori. Invece ha sentito l’unghia del professore picchiettare sui canini. Detesto scrivere qui. Constance l’ha detto con una voce fiacca. Ha ripetuto la frase. Il professor Cornaz scuoteva la testa per dissimulare l’imbarazzo. Siccome temeva che gli si velasse la voce ha parlato in fretta, dicendo che con quell’idea si poteva fare qualcosa. Le avrebbe dato un’altra possibilità, aveva fino al giorno dopo per scrivere il suo tema, parole bloccate nella testa, parole che una scatola cranica ostinata si rifiutava di lasciar uscire. Era d’accordo? In lei tutto diceva no, ma nonostante tutto ha detto sì, un vero sì. È uscita dall’aula senza precipitarsi e senza dire arrivederci. Non ha chiuso la porta dietro di sé.

 

Fuori cadeva una pioggia calda, e c’era già la bruma.

Constance ha tagliato per il terreno incolto. La spianata non è poi così piana. La conosce bene: i suoi cumuli di terra come dune, i suoi rifiuti, le sue erbacce, la capanna dove si ritrovano i più piccoli. Si è tirata su le maniche della camicia. L’acqua sulle braccia era abbondante, generosa. Come in quella città del sud quando aveva tre o quattro anni. Dov’era? Forse in Andalusia? Forse Siviglia? O Granada? Il caldo è opprimente e la luce fa strizzare gli occhi nonostante gli occhiali da sole. I suoi genitori sono seduti a un tavolino all’aperto. Constance si sottrae alla loro attenzione, attratta da quei getti d’acqua proibiti che si innalzano per una trentina di centimetri. Allunga un piede, poi l’altro. L’acqua la rinfresca, ma non abbastanza, allora si fa avanti, si piazza sotto il getto, e l’acqua le bagna le gambe, le braccia, la pancia, le sfiora le ascelle e le solletica il sesso.

L’acqua ha ogni potere.

Non esiste niente di meglio.

Prova un altro getto. Un altro ancora. Il suo vestito giallo è diventato trasparente e i suoi piedi sguazzano nei sandali. Constance scopre la gioia, e il momento dura, e potrebbe durare ancora a lungo se un braccio non la sollevasse da terra. Un corpo troppo forte per lei la incalza e l’allontana dai getti. Constance grida, si oppone, morde, non ne vuole sapere. La rimproverano, senza cattiveria e con fermezza: la voce dei genitori, la voce degli adulti, la voce di tutti quelli che sanno.

 

Con questo ricordo in testa, Constance è arrivata sul ciglio della superstrada, con le espadrillas fradice. Si è dondolata per qualche minuto senza sentire niente, e a un tratto le orecchie si sono stappate. Allora la realtà si è ripresentata: rumorosa e senza pudore. Constance sente il rumore continuo delle macchine, un altro torrente, che si fa beffe degli umori del cielo e delle occhiaie bluastre che lei ha sotto gli occhi. Il rumore non fa concessioni, irrita e offende. Forse bisognerebbe andarsene, mettersi al riparo. Constance indietreggia di qualche metro. Si china e raccoglie una pietra che si è ritrovata tra i piedi. Non saprebbe dire quanto pesi.

La pietra sposa il suo palmo.

Constance si rimette in cammino. Potrebbe posare la pietra sulla sua cassettiera, potrebbe tenersela in casa, come un talismano, oppure potrebbe nasconderla dietro una pila di vestiti, o magari decorarla, come quando da bambina disegnava facce variopinte su dei pezzi di legno, mostri gentili che si aspettava di veder prendere vita non appena avesse gridato aiuto. A metà della passerella, Constance si ferma. Qui, il rumore è ancora peggio. A un tratto si tende tutta, la nuca si contrae, la colonna vertebrale si stira e una scossa le irriga il corpo. Constance sbuffa davanti al vuoto, un respiro profondo. Alza il braccio, e questo braccio alzato resta quattro o cinque secondi così, per aria, sotto la pioggia, e nessuno lo vede. Senza mirare ad alcunché, Constance lancia la pietra davanti a sé. Il più lontano possibile. Sopra il rumore regolare delle macchine si sente un altro rumore, un rumore secco. E subito dopo dei colpi di freni, di clacson, scintille di metallo, un rallentamento e, come nelle favole, il tempo si ferma. È bastato che una pietra cadesse su un cofano perché tutto si ingolfasse.

 

Constance corre.

La pioggia tutt’intorno la protegge.

I suoi sono i passi di un gigante.

È più potente di tuono e tempeste, possiede ali di drago. Corre fino a casa, e nella sua camera si lascia cadere sul pouf arancione che ha ricevuto in regalo per i suoi dieci anni. In un attimo, gli abitanti dei palazzi sono alle finestre. Uno spettacolo simile non bisogna perderselo. Le ipotesi riempiono bocche e cervelli. Su due corsie è tutto bloccato. La strada rimarrà chiusa fino all’alba. I lampeggianti dei carri attrezzi e delle macchine della polizia scortano la notte. Non c’è nessun ferito, solo della lamiera ammaccata e del tempo perso per quelli che si piegano a come va il mondo. È rincuorante. Se l’avessero interrogata, cos’avrebbe potuto dire? Che aveva gli occhi chiusi perché il vento deviava la pioggia che le sferzava la faccia a grosse gocce? Che era circondata da uno spazio buio nel quale cercava di dissolversi? Che il rumore le divorava il ventre e le martellava in testa? Che bisognava fermare quel flusso lento e incessante? Non sono pazza, si dice, e davanti allo specchio si dipinge le labbra di rosso. Là in alto, sanguigna e leggiadra, la luna dileggia le nuvole.

E Constance scrive.

Frasi definitive.

Solo per sé.

 

(traduzione di Maurizia Balmelli; testo tratto da Viceversa Letteratura n. 17/2023)

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