Il grido nascosto dei detrattori della meritocrazia
Non siate né fieri né faceti, e nemmeno a vostro agio: rischiereste di apparire arroganti. Mitigate la passione, il fervore, perché potrebbe spaventare. Soprattutto, non fatevi venire nessuna “buona idea”: il tritadocumenti ne è già pieno. E poi, quello sguardo penetrante, che intimidisce, smorzatelo, diluitelo, e rilassate le labbra contratte; bisogna essere flessibili e anche mostrarsi tali. […] I tempi sono cambiati. Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia […] eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere.
Le piccole e grandi rivoluzioni si fanno ormai a colpi di parole, e difficilmente ci sarà una data memorabile che simboleggi quei microscopici cambi epocali che definiscano, ad esempio, quando sia sacrosanto parlare di libertà e quando invece sia un’eresia. Un aggiornato Indice delle parole “proibite” non è possibile, per la stessa mutevole natura di quei impercettibili movimenti tesi a sminuire, corrompere e falsificare questo o quel valore. Ad essere finito nel tritacarne mediatico da alcuni tempi è il merito, e con lui, la famigerata meritocrazia, termine coniato da un suo convinto detrattore: l’integerrimo egualitario Michael Young, pardon, il “Barone Young di Dartington” – questo il titolo nobiliare che accettò –, autore de L’avvento della meritocrazia (1958). Arcicitato dai nuovi inquisitori, il sociologo inglese gode oggi di grande fama, molto più del filosofo canadese Alain Deneault, ricordato in esergo, che mi pare aver individuato ne La mediocrazia (2015) un pericolo ben più temibile e reale.
Ai vertici vedete davvero uno stuolo di individui “eccellenti” o piuttosto una massa di “mediocri”, senza particolari meriti e competenze? Il collega “premiato” o il compagno di classe “lodato” è davvero quello più brillante o il più ruffiano? Vi pare che la corsa alla promozione sia capeggiata da indefessi lavoratori o invece da «mediocri zelanti»? Chi la vince? Chi aspira alla perfezione o chi punta allo stretto indispensabile, curandosi però di strizzare l’occhio alla persona giusta? Mai che venga rifiutata una candidatura perché si è nella media: o si è “iper qualificati” o “senza esperienza”. È certo, «la virtù sta nel mezzo», nel punto mediano, incarnato dall’uomo mediocre: «non infimo ma impermeabile alle idee brillanti, e privo di aspirazione all’eccellenza» e che nondimeno conquista il potere «a furia di favoritismi, collusioni, compiacenze».
Detto che, a mio parere, puntare sul merito è come scommettere su un cavallo zoppo, ma che presto o tardi darà le sue soddisfazioni, e che chi possiede l’arte della ruffianeria (una dote senza dubbio innata) ha la strada spianata, la retorica volta a disonorare il merito temo non faccia altro che agevolare quel livellamento verso il basso tanto caro ai più. Mi pare poi singolare che a capitanare la rivolta contro questo temibile nemico siano gli studenti. Risvegliatisi dal torpore pandemico – dove il diritto allo studio negato a chi non porgeva il braccio non aveva destato grande scandalo – sono stati proiettati in un incubo: il Ministero dell’Istruzione e del Merito voluto dal governo Meloni, in forza dell’articolo 34 della Costituzione italiana – «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Chiariamo che gli indignati sono universitari. Bene, il loro ragionamento è presto detto: la meritocrazia premia i meritevoli, (tutti i meritevoli sono economicamente avvantaggiati), la meritocrazia aumenta/giustifica le disuguaglianze. Parrebbe per loro impensabile che un alunno svantaggiato possa eccellere negli studi: ed è comprensibile, dato che questi stessi collettivi inorridiscono di fronte all’“assurda” logica della fatica che gli studi richiedono (e che, si noti il cortocircuito, permette agli studenti meno talentuosi o meno fortunati di raggiungere gli stessi risultati, se non migliori, dei “geni pigri” o dei “ricchi oziosi”). Per dare un assaggio delle loro battaglie, mi limito ad elencare due importanti iniziative degli Studenti Indipendenti: Mi merito uno spritz, per fronteggiare «l’imperativo della produttività» e rivendicare «il diritto di non fare nulla» e Alza la media, aperitivo a prezzi popolari «bello come un 30 in un esame» e «contro lo stress della sessione». Iniziative innocue, sino a quando non si mette sullo stesso piano chi «non ha voglia di lavorare» e chi «non arriva a fine mese», chi «è stanco di avere l’ansia pre-esame» e gli studenti suicidi – un fenomeno drammatico che mi pare semplicistico attribuire al solo sistema universitario, e di cui si servono, senza vergogna, per giustificare la battaglia lassista.
Perché mai, si chiedono increduli in un post dello scorso aprile, «non possiamo vivere l’università con i nostri tempi?», qual è l’assurda logica che “premia” i meritevoli con borse di studio e “punisce” i fuoricorso con le tasse? Dato che «il 40% degli studenti universitari non riesce a laurearsi in tempo» dicono a gran voce gli “Indipendenti” con il pugno chiuso alzato (così vengono ritratti nelle loro inclusive foto di gruppo) «aboliamo l’esclusione “meritocratica”, il fuoricorso!». Chiariamo che il numero di chi «riesce a stare al passo con i ritmi insostenibili che l’università impone», secondo i report di AlmaLaurea, in realtà sia in costante crescita (si va dal 40,7% del 2012 al 62,5% nel 2022), mentre la percentuale dei fuoricorso italiani, in ritardo di quattro o più anni, in netta riduzione (si va dal 13,6% nel 2012 al 5,7% nel 2022). Quel che è più interessante è la “soluzione”.
Una crociata contro il merito fine a sé stessa, mirando a “distruggere” senza “costruire” un’alternativa, una campagna viziata dall’ideologia, secondo cui il “merito” sarebbe appannaggio di una certa parte politica, e che si regge su argomentazioni capziose, dove puntualmente si identifica un ideale con la sua corruzione. Mi pare a tal proposito simbolico che i detrattori del merito si affannino a citare il saggio di fanta-sociologia di Young, guardandosi bene dal sottolineare che la società meritocratica immaginata fallisca non perché prevalga il merito ma perché, al contrario, sia completamente assente. A causa dei «matrimoni intelligenetici», da cui nascono figli dotati, e del «mercato nero dei bambini», la compra-vendita degli infanti prodigio, «l’élite si avvia a diventare ereditaria; i principi dell’ereditarietà e del merito tendono a fondersi». Liberi poi di credere che tutti i meritevoli siano ambiziosi e spietati, mentre i meno meritevoli tutti coscienziosi ed altruisti, e di sognare «una società senza classi» che valuti le persone non solo «per la loro intelligenza e cultura», ma anche «per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità».
Ma ognuno, si sa, ha i propri sogni e incubi. Per chi è terrorizzato dal fantasma della meritocrazia, ce ne sono altri che temono l’«età del livellamento» ripugnata da Orwell e «la riduzione della diversità umana a uniformità subumana» preconizzata da Huxley. Solo il tempo ci dirà se aveva ragione Young, Kurt Vonnegut (Harrison Bergeron) o Paolo Mantegazza (Sogno). C’è da attendere il 2033 per veder realizzata la ripugnante meritocrazia, il 2081 per un’agghiacciante uguaglianza imposta per legge (dispositivi rimbecillenti, pesanti imbracature e strambi travestimenti saranno riservati a intelligenti, forti e belli), e il 3000 per approdare al «porto dell’Eguaglianza», abitato da individui perfettamente identici e anonimi, uniti dal motto «la diversità offende la giustizia». Reductio ad absurdum? Sì, ma per far intravedere il vero incubo degli antimeritocratici: non la disuguaglianza ma l’individualismo, per loro assai più temibile rispetto al conformismo e alla mediocrità.
Lucrezia Greppi